In margine ai consueti saluti istituzionali sul sito della nostra scuola, un liceo classico-linguistico, ho pensato che senz’altro è bello chiudere l’anno con una riflessione sui buoni sentimenti e che senza dubbio è confortante per tutti che i nostri studenti siano lieti di essere buoni, più che eruditi.
Ma mi chiedo se sia motivo di vanto ribadire un primato della bontà sul sapere o piuttosto non crei in chi legge l’impressione di un’antinomia fra le due dimensioni.
Senza nulla togliere alla missione educativa della scuola, che orienta alla solidarietà e all’altruismo, comunicando i valori della nostra civiltà proprio tramite la conoscenza, mi piacerebbe che come docenti facessimo sentire di essere consapevoli della nostra responsabilità nel formare le competenze dei cittadini e dei lavoratori di domani.
Sulle implicazioni pericolose dell’incompetenza come cittadini, rinvierei alle considerazioni che nel 2017 ha espresso Tom Nichols nel suo libro “La conoscenza e i suoi nemici: l’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia”.
Quanto alle competenze professionali, la nostra scuola non è immediatamente professionalizzante, ma questo non ci esime dal farci carico di un problema che in Italia non si può ignorare, anzi riceve sempre più gli onori delle cronache: l’inadeguatezza della preparazione linguistica degli studenti medi rilevata nelle facoltà universitarie e perfino nei concorsi pubblici.
La diagnosi dei media è ovviamente l’inefficienza della scuola, ma a mio avviso nell’individuare i responsabili si commette un errore che chi vede la scuola dall’esterno può essere indotto a compiere: la responsabilità evidentemente è degli adulti e viene spontaneo addossarla agli insegnanti, proprio accusandoli di incompetenza, ma non tutti forse pensano alle conseguenze di una scuola che ha confuso l’istruzione di massa con la promozione di massa.
Noi docenti sappiamo che nonostante l’impreparazione di un alunno è difficile che la sua ammissione al successivo anno di corso sia pregiudicata, perché dispiace sempre assumersi la responsabilità di quello che in Italia è ritenuto il trauma della bocciatura.
In Finlandia, se un alunno non raggiunge gli obiettivi di una materia resta nella classe corrispondente finché non è in grado di passare alla successiva: l’organizzazione della scuola è completamente diversa e finanziata con ben altre risorse, ma sull’istruzione non pesano condizionamenti emotivi.
Da noi invece il livello delle classi nel percorso di studi deve generalmente tenere conto della presenza di alunni che non hanno raggiunto gli obiettivi dell’anno precedente.
In più, è ragionevole che anche gli studenti si accorgano della disponibilità a formulare su di loro una valutazione finale benevola. Chiaramente, la loro motivazione allo studio dovrà sostenersi allora su ragioni molto più nobili, ma più difficili da praticare alla loro età.
Recentemente ho saputo di un genitore che ha lamentato l’indulgenza della scuola: a suo giudizio, la valutazione finale benevola a fronte di persistenti carenze denuncia una cattiva coscienza da parte dei docenti, che in questo modo rimediano all’inadempienza al loro compito.
Sul piano educativo, è evidente che il discredito degli insegnanti abbia conseguenze sulla loro credibilità: ne mina l’autorevolezza. Se la considerazione nei confronti dei docenti è compromessa, è ragionevole aspettarsi che gli studenti non diano loro ascolto.
Mi auguro che come professionisti della formazione e dell’educazione non abdichiamo al nostro compito, per quanto implichi responsabilità sgradevoli sul piano emotivo, e abbiamo il coraggio di valorizzare l’istruzione con gli strumenti che la scuola della Repubblica ci dà per rendere credibile il nostro ruolo, davanti ai nostri studenti, alle loro famiglie e alla società.
Caterina Bonasegla
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