La famiglia. Nel travaglio di adattamento a cui tutti siamo sottoposti, è essa a risentirne maggiormente. Ma, nella famiglia, a soffrire di più sono loro, gli adolescenti. Perché l’adolescenza costituisce il passaggio in cui si offusca l’incanto dell’infanzia, basato sul pensiero magico e fiducioso, mentre si delinea, giorno dopo giorno, lo scenario di un mondo difficile ed incoerente.
Il bambino. Sembra rapito dallo stupore delle cose e, quando punta il piccolo dito su questo e su quello, sembra che dica: “Che bello … Cos’è?”. L’adolescente, invece, osserva tutto con sguardo disincantato e pare che pensi: “Questa è la realtà? … Sì, questa è la realtà. E, allora, cosa posso desiderare? A chi posso affidarmi?”.
Un bambino che compare nella nostra vita rappresenta l’eco incantevole dell’integrità originaria. Osservare un bambino mentre esplora il mondo equivale a riscoprire se stessi. Solo il bambino può mostrarci la forza, l’amore e il coraggio che sono nascosti dentro di noi. Ma, è risaputo. Dalla pubertà in poi, le cose cambiano. L’adolescente possiede il dono di una carismatica lucidità nella valutazione delle cose.
Nessuno come lui è capace di trasfigurare il mondo in termini di bellezza. Ma nessuno, come lui, è in grado di accorgersi, con realismo spietato, dei punti deboli e delle contraddizioni della società in cui viviamo. E se, all’inizio dell’adolescenza, il giovane vede tutto nell’alone dell’entusiasmo, tale grazia aurorale va gradualmente dissolvendosi di fronte alla lezione di cinismo che egli riceve dagli adulti. Ecco, allora, che, alla stagione dell’ingenuità e della fiducia, subentra quella prosaica del realismo, basato sul mondo che abbiamo sotto gli occhi: “La stagione più infelice di tutte è la gioventù, – scrive Oriana Fallaci – perché è nella gioventù che incominci a capire le cose e ti accorgi che agli uomini non interessa né la verità, né la libertà, né la giustizia. Sono cose scomode e gli uomini si trovano comodi nella bugia e nella schiavitù e nell’ingiustizia”.
Facevo tali riflessioni, in questi giorni di luglio mentre, passeggiando sul lungomare, constatavo l’imbarbarimento del linguaggio adolescenziale. Una degradazione che, a causa dell’imitazione e della complicità interne all’universo giovanile, raggiunge tutte le età, anche quelle tenere della scuola elementare. Ragazzini, ancora freschi di cartoni animati, che marcano il loro desiderio di virilità con bestemmie e parolacce. Un fenomeno sempre esistito, si dirà. Ed anche da considerare, per quanto negativo, funzionale alla crescita. Ma, quest’anno, esso mi è parso più evidente, più cattivo. In questa estate da Coronavirus, sembrano manifestarsi tre violenti atteggiamenti di reazione. E tutti rivolti contro entità le quali, in modo diverso, sono responsabili della nostra esistenza. E, di conseguenza, del momento che stiamo attraversando. Dio, la Terra, la madre.
Gli adolescenti ce l’hanno con Dio, e lo manifestano attraverso l’uso compulsivo della bestemmia. Ce l’hanno con la Terra, e lo mostrano profanando l’ambiente con i rifiuti. Ce l’hanno con la madre che li ha dati alla luce e lo rivelano dissacrando l’immagine della donna con la parolaccia ed il disprezzo. Perché la donna è fonte della vita, quella biologica ed affettiva. Perché la donna è il perno dell’universo emotivo e sociale. Ed oltraggiare la donna equivale a rifiutare il giorno in cui siamo nati. Ma la parolaccia contro la donna-madre esprime anche la pendolarità emotiva fra la nostalgia ed il rifiuto di quella stagione di purezza e fiducia costituita dall’infanzia. Sembra strano ma il bambino, ogni bambino, è in relazione con Dio, con lo stupore verso il mondo, con un rapporto simbiotico con la madre. Per questo gli adolescenti offendono Dio, sporcano la Terra ed insultano la madre. E tutto ciò perché non credono più in questa vita ed in questo mondo.
Bestemmie e parolacce. All’indomani della quarantena, esse meritano una riflessione. Certamente, le bestemmie e le parolacce sono imputabili alla frustrazione da reclusione. A quel basamento solido che è improvvisamente franato, nelle profondità della mente, in termini di prevedibilità, sicurezza, ottimismo. Sicuramente influisce anche una cultura, come la nostra, relativistica e priva di certezze. Un paesaggio privo di un cielo protettivo e senza orizzonti rassicuranti. Chiuso nella curvatura angusta degli obiettivi immediati. Un’atmosfera etica per cui chi si rivolge a speranze supreme è un perdente in cerca di compensazione. In ogni caso un personaggio patetico che non può assurgere a modello. Diciamolo, in questo clima culturale sono pochi ad essere in grado di mandare segnali di limite o che si sentono capaci di intavolare un dialogo educativo con i giovani. E voglio sperare che i genitori dei ragazzi da me incontrati non siano fra questi. E poi, diciamocelo, quante persone, oggi, dopo tanta demonizzazione del rapporto adulto-ragazzo, si arrischierebbero a dire qualcosa in pubblico a degli adolescenti. Ed in nome di quale valore?
La bestemmia. Anche il contadino che stamane mi guardava tranquillo, accogliendomi cordialmente, quando il suo trattore ha dei problemi, arriva a bestemmiare. Ma, il suo è un contegno sporadico, legato a qualcosa di particolare, e non un comportamento compulsivo, sistematico.
Hanno scritto che anche la bestemmia, in certi casi, può essere considerata come una preghiera alla rovescia. Un’invocazione ed una protesta lanciate verso Qualcuno perché ci aiuti e non ci deluda. Ne sono più che convinto, pure nel caso dei ragazzi del lungomare di questo mese di luglio in museruola antivirus. La bestemmia, per essi, può anche esprimere un desiderio di consistenza ed autonomia virile. Ma, nel profondo, la bestemmia è sempre un urlo di disperazione. Come quello del celebre quadro di Edvard Munch. Un grido che, decodificato, significa: “Ma che senso ha tutto questo? Dove siamo diretti? Basta con questa ipocrita drammaturgia sociale”.
Cosa potrà salvarci? Probabilmente, un nuovo umanesimo. Il ritorno di persone che hanno ancora il coraggio di scrivere: “Non c’è nulla di più meraviglioso dell’uomo”, o “L’uomo è artefice del suo destino” (Pico della Mirandola). Oppure, “L’uomo supera infinitamente l’uomo” (Blaise Pascal).
Luciano Verdone
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