Buone notizie dalla scuola: con questo titolo, il movimento per l’autoriforma della scuola raccolse in un volume, circa una ventina di anni fa, una serie di brevi saggi e interventi dei numerosi insegnanti che avevano preso parte ai convegni da esso organizzati in varie città d’Italia. Le finalità del movimento erano quelle di “ridare vita all’antico desiderio d’insegnare” con una riforma che si autodefinì “gentile”, in quanto sorta da un movimento spontaneo e “non rumoroso”, che auspicava il cambiamento della scuola senza assecondare passivamente le direttive provenienti dal “ceto buro-pedagogico” (l’espressione è di uno dei coautori).
Tale ceto ha dato vita negli ultimi decenni a tentativi di riforma basati su principi diversi. Come osservava Guido Armellini, uno dei promotori del movimento, se negli anni ottanta il modello prevalente era stato quello cognitivista, che aveva tra i suoi intenti principali quello di eliminare ogni ambiguità e soggettività dalla valutazione utilizzando test e “prove oggettive”; negli anni novanta, “sulla scia di una svolta epistemologica legata all’ermeneutica”, anche gli esperti ministeriali avevano preso atto “che il processo di insegnamento-apprendimento è un fenomeno complesso, nel quale i fattori cognitivi s’intrecciano inestricabilmente con quelli affettivi, psicologici, relazionali e che la netta distinzione tra soggettivo e oggettivo non è ‘scientifica’ come può sembrare a prima vista”.
In un primo momento, tuttavia, una tale nuova consapevolezza si era tradotta in un tentativo piuttosto maldestro di valutare separatamente fattori come attenzione, intraprendenza, solidarietà, conoscenza di sé, rispetto dell’ambiente ed altri difficilmente misurabili in maniera analitica, col risultato d’ingabbiare ulteriormente la relazione insegnante-alunno entro schemi didattico-educativi ancor più rigidi e difficilmente gestibili. Di fronte a questo modo di concepire tali rapporti, il movimento per l’autoriforma della scuola si proponeva viceversa di considerare la soggettività insita nella relazione educativa non come un limite, ma come una risorsa; non cercava di tradurla in schemi standardizzati, ma prediligeva, là dove possibile, l’oralità, concependo l’insegnante più come una parte di ciò che sta valutando che come un osservatore esterno.
Secondo i promotori del movimento il conflitto tra la prevedibilità delle norme e l’imprevedibilità delle relazioni “investe ogni aspetto della vita della scuola”. Più questa riuscirà a sviluppare il rapporto insegnante-alunno valorizzandone la dimensione “dialogica”, ovvero più saprà sottrarsi a schemi educativi e didattici standardizzati, più sarà in grado di trarre il massimo dalle risorse umane e culturali delle sue componenti principali. In questo modo, sottraendosi almeno in parte all’influsso di norme statuarie omnivore, che rischiano di ricondurre la specificità di ogni esperienza didattica-educativa entro schemi ipertrofici e burocratizzati, la scuola potrebbe veramente essere riaffermata come diritto sociale non subalterno ad alcuna illusione normativa, ma in grado di riconoscersi nella varietà degli “attimi fuggenti” che caratterizzano la sua attività formativa.
In altre parole, dovremmo ricordarci, come suggerisce Paola Mastrocola (La scuola raccontata al mio cane, Guanda, 2004), che insegnare può essere una cosa molto semplice e naturale se la si fa con passione e provando “il piacere immenso della condivisione”. Tutto sarebbe più chiaro se ci ricordassimo che “quando leggiamo a chi ci è vicino quel che ci piace o ci emoziona, noi stiamo insegnando. Ma ne siamo felicemente inconsapevoli. Non abbiamo fatto nessun corso di didattica e non sappiamo affatto che quel che stiamo facendo è insegnare, lo facciamo e basta, perché ci sembra naturale farlo, e l’unico impulso che seguiamo è il profondo desiderio che l’altro partecipi alla nostra gioia interiore, che la condivida”.
Purtroppo sono sempre di meno gli insegnanti che attribuiscono al “piacere immenso della condivisione” la sua importanza cruciale. Anche quando sono perfettamente in grado di provarlo, la fitta rete degli impegni scolastici e delle norme cui devono adempiere li induce spesso a dimenticarsi di farlo. Anche per questo, rispetto alla situazione in cui versava nel 1998, anno di pubblicazione di Buone notizie dalla scuola, questa non sembra oggi godere di una salute migliore, anzi. Il ceto buro-pedagogico ha continuato a dettare legge, la burocratizzazione della didattica è notevolmente aumentata rispetto ad allora e il rapporto insegnante-alunno, invece di essere valorizzato, è stato sempre più imbrigliato entro norme standardizzate, tanto da far sospettare che di questo passo sarà di fatto ridimensionata e compressa anche la libertà d’insegnamento.
Forse si è potuti arrivare a questo punto perché si crede sempre meno in ciò in cui hanno creduto tutti i più grandi pedagogisti, da Socrate a Rousseau, da Pestalozzi fino alla Montessori e a Don Milani; perché non si ha più fiducia negli insegnanti e nel loro lavoro, nella loro competenza e nella loro serietà, e forse questo è il segno che si crede anche sempre meno nella democrazia liberale e nei valori tutelati e promossi dalla nostra Costituzione. Ma potrebbe trattarsi anche del segnale, per gli insegnanti, che forse è giunto per loro il momento di riprendersi sulle spalle la scuola, di recuperare le linee ispiratrici di quel movimento per una sua autoriforma “gentile”, di darsi una mossa e di rivendicare con orgoglio e passione il loro diritto/dovere di trasmettere e comunicare l’amore per la cultura e per la conoscenza senza dover rendere conto ad ogni passo alle direttive del ceto-buropedagogico, che hanno come effetto principale proprio quello di sterilizzare quel “piacere immenso della condivisione” di cui ci parla Paola Mastrocola e su cui si fonda l’efficacia reale di ogni insegnamento.
Gustavo Micheletti