Le elezioni passano, ma i problemi restano. Vedremo come verranno affrontati dal nuovo governo, che è sempre bene augurarsi nasca quanto prima.
Da qualche tempo, pensando al futuro dei nostri giovani, ci stiamo tutti chiedendo se i percorsi scolastici possono considerarsi soddisfacenti, viste le situazioni che si incrociano: da un lato eccellenze che potrebbero continuare a scegliere l’estero come unica spiaggia, depauperando tante speranze ed opportunità necessarie per il nostro sistema Paese, dall’altro continue richieste, da parte di piccole e medie aziende, di tecnici, di operatori non tutti qualificati ai massimi livelli.
Quindi, per dirla tutta, una formazione liceale, da una parte, tutta proiettata allo sviluppo di attitudini e competenze trasversali, disponibili ad incontrare i nuovi mondi del lavoro, e dall’altra competenze subito spendibili e a diverso contenuto di specializzazione.
Il mondo della scuola, ma anche della politica, di fronte a questo scenario si trova un po’ in mezzo al guado, per la notevole difficoltà, oggi, a ridimensionare una forma di insegnamento ancora centrata sulle conoscenze, necessarie ma non sufficienti, in una logica frammentaria e quasi totalizzante, ma lontane da riconversioni come competenze da certificare, nei termini anche di equipollenza dei titoli di studio.
Nel frattempo, come attestano gli ultimi dati ISTAT relativi al 2016, sul nesso tra qualifica professionale e disponibilità al cambiamento digitale, questo sta diventando la cruna dell’ago del mondo del lavoro di oggi. In termini di percezione ma anche di riscontro stipendiale. Tanto da ingenerare quei timori, paure, rischi di obsolescenza, quindi rigetto nel precariato di ogni forma di relazione di lavoro. È, in sostanza, quella paura di futuro, se non di sfiducia che un percorso di studi possa portare ad esiti positivi, prima o poi, in termini di garanzie occupazionali, cose che incontriamo e vediamo tra i giovani e in famiglia.
Le competenze digitali, in sintesi, sono oggi determinanti per mantenere un lavoro? Come proteggersi dai cambiamenti in corso?
Ovvio che non bastano le vecchie parole d’ordine su formazione permanente, disponibilità a studiare sempre, per tutto l’arco della vita, a rimettersi in gioco senza più stabilità, secondo il vecchio mito del “posto fisso”.
È facile comprendere, se sappiamo leggere i segni dei tempi, tanto odierno disagio sociale, compresa una evidente rabbia per il nostro sistema complessivo che privilegia i nonni e i padri sui figli e nipoti. Senza nemmeno pensare a quando potranno andare in pensione.
Timori e paure, dunque, per i rischi di esclusione e di emarginazione, senza un futuro che possa consentire a loro di pensare a medio termine alla loro vita non solo lavorativa, ma, anzitutto, affettiva, relazionale, sociale.
Per limitarsi ai numeri, i dati ISTAT relativi al 2015-2016 ci dicono che c’è stata una diminuzione di 17.000 posizioni lavorative ad alta qualifica, mentre sono aumentate quelle a media qualifica di 137.000 unità, e di 170.000 con bassa qualifica.
Come possa un Paese immaginare un proprio ruolo attivo quando vengono meno, nei fatti, le opportunità di eccellenza, quindi di creatività e di innovazione, rimane dunque un mistero.
L’aumento, in un anno, di 86.000 basse qualifiche, concentrate nel manufatturiero, fanno fatica a giustificare la perdita di 68.000 alta qualifica e di 13.000 media qualifica.
Che cosa fa, dunque, la differenza tra alta, media e bassa qualifica? In modo scoperto l’innovazione digitale, in modo più analitico, accanto, ovviamente, alla formazione tecnica, la disponibilità a gestire le complessità, in contesti sempre in divenire. Quindi, non le tecnologie fine a se stesse, ma la complementarietà.
Senza questa, l’unica prospettiva che rimane è la bassa qualifica.
Quindi, non basta la formazione tecnologica, se non è supportata. Per queste ragioni, tutti cercano talenti da formare.
Sono le nuove frontiere delle disuguaglianze, che, credo, sono esplose, come nuove aspettative, anche nei risultati delle ultime elezioni politiche.
Compito di uno Stato, lo,sappiamo, col suo sistema formativo, è quello di abilitare più possibile verso traguardi di qualità e pari opportunità. I vecchi e nuovi attori politici sono oggi consapevoli di questi problemi aperti?
Sapranno costruire percorsi per una innovazione continua che ponga al centro le persone che vivono i diversi mondi vitali? Non considerate più mere “risorse umane”, per quella formazione che valorizza la totalità del nostro essere, e non solo la sua funzionalità utilitaristica, burocratica, spersonalizzante, da mero meccanismo di un sistema chiuso.
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