Tempo di “Didattica Distanza” (“DaD”) per gli insegnanti; di giornate intere davanti ai dispositivi elettronici; di notizie allarmanti circa possibili doppi turni, aumenti folli dell’orario di insegnamento, valutazione e organi collegiali senza solida copertura giuridica.
“Le mani sulla Scuola: la crisi della libertà di insegnare e di imparare” è un libro pubblicato lo scorso gennaio — e scritto a quattro mani da Anna Angelucci e Giuseppe Aragno — che risponde alle domande: come si è giunti a questo punto? perché questa continua vivisezione sul corpo vivo della Scuola (senza mai, peraltro, chiedere l’opinione degli insegnanti)?
Non è forse vero che i docenti, in quanto professionisti dell’educazione e lavoratori non subordinati, hanno organi di autogoverno in materia didattica (come il Collegio dei Docenti, cui compete in ogni istituzione scolastica il potere deliberante in materia didattica ed educativa) a tutela della libertà d’insegnamento garantita dalla Costituzione?
Anna Angelucci — saggista, collaboratrice di Roars e Micromega, docente di italiano e latino nei Licei — si occupa della Scuola concepita dalla Costituzione come istituzione, e poi evoluta (involuta?) in quella che definisce “piccola o media azienda pubblica a capitale misto pubblico-privato”: deprivata della sua originaria funzione di ascensore sociale, per diventare cinghia di trasmissione di (dis)valori mercatistici, economicistici, tecnolatrici.
Secondo l’Autrice la Scuola-istituzione è stata sacrificata al “new public management” imperante dal D.Lgs n.29 del 3 febbraio 1993, quando tappe forzate si è dato l’abbrivio alla “trasformazione della Scuola della Costituzione tramite l’impiegatizzazione della categoria docente”. Tappa chiave è stata poi la cosiddetta “autonomia”, che ha in realtà accentrato i poteri nelle mani del “dirigente Scolastico” (definito “datore di lavoro” grazie al citato D.Lgs 29/1993), seguita dai tagli del dicastero Gelmini e dalla Legge 107/2015 (al secolo “Buona Scuola” renziana). Una sostanziale continuità d’intenti e di prassi, incurante degli avvicendamenti e dei colori partitici, sostanzialmente ubbidiente linee guida dettate da Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea, multinazionali varie, Confindustria e sue diramazioni; sulla scia di un pensiero unico neoliberista da far invidia alla fantasia di un Orwell.
I dati che Angelucci offre parlano da sé. Come quelli sul “fondo per l’arricchimento dell’offerta formativa”, previsto dalla Legge 440/1997, ma impoverito dal 1997 al 2017 del 70%: tanto da poter scrivere che «lo Stato investe oggi, nelle scuole autonome, per i suoi studenti, 6,5 euro pro capite».
Il bombardamento ideologico sulle competenze, unito alla mania delle “misurazioni” e delle nuove tecnologie, ha prodotto «Una visione della Scuola che oggi al soggetto pensante ha definitivamente sostituito l’individuo agente, al bambino o all’adolescente riflessivo lo studente performativo, sottoposto al “dominio cognitivo e all’egemonia della razionalità capitalistica”». I gelminiani e berlusconiani tagli del 2008 (quasi 9 miliardi), uniti alla “autonomia”, hanno reso le scuole «libere di essere dismesse dallo Stato, ormai anche giuridicamente deresponsabilizzato» al punto di lasciarle finanziare dai genitori col contributo “volontario” (coatto), o dai supermercati tramutati in “sponsor”.
È il neoliberismo alla Milton Friedman, bellezza! D’altronde l’OCSE «nel 1998 ha stimato in 2.000 miliardi di dollari l’investimento per la Scuola nel mondo e in 1.000 miliardi negli Stati membri, con circa 4 milioni di insegnanti, 80 milioni di studenti, 315.000 istituti e 5.000 università: davvero un affare di dimensioni straordinarie, un business gigantesco, al pari di armi, guerre, farmaci, cibo, e-commerce, big data» (e ora — potremmo aggiungere — DaD). Infatti, la stessa Autrice parla di “coazione al digitale“, «divenuto, da semplice strumento, principale obiettivo dell’apprendimento e suo contenuto esclusivo (…), coercizione a un consumo illimitato e, contemporaneamente, realizzazione di quel cambiamento mentale funzionale ai nuovi modelli organizzativi e produttivi dell’impresa, in un mercato globale totalmente focalizzato sulle nuove tecnologie».
Partendo da una notevole mole di dati statistici, Giuseppe Aragno — storico dell’antifascismo e del movimento operaio, nonché docente di Lettere nei Licei — disegna dal canto suo un percorso storico dell’evoluzione del sistema scolastico italiano dalle fasi preunitarie ad oggi, con particolare riguardo agli scenari che spiegano l’attuale distanza tra Nord e sud della Penisola anche in ambito scolastico. Dalle politiche scolastiche del Regno di Napoli alla lotta dello Stato unitario contro l’analfabetismo, l’Autore rileva un evidente “sviluppo diseguale” tra le due parti dello Stivale, con sostanziale fallimento dei (rari e incoerenti) tentativi dell’Italia repubblicana per interrompere i danni perennemente apportati al tessuto sociale meridionale da quella che Aragno definisce “spirale della povertà”.
Una lettura imprescindibile, insomma, “Le mani sulla Scuola” (come anche il trattato di Stefano d’Errico “La Scuola distrutta”), se non si vuole soccombere (senza manco accorgersene) al rullo compressore delle prossime iniziative governative in materia scolastica.
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