La bulimia da dispositivi tecnologici, indotta dai generosi fondi PNRR, sta già producendo quesiti angoscianti nelle scuole, riassumibili nella domanda: “E ora, con tutta questa roba iperdigitale, che caspita ci facciamo?”.
In effetti, diverse scuole hanno agito secondo la sindrome del consumatore che va al supermercato poco prima di pranzo e che, complice la fame del momento, mette compulsivamente di tutto dentro il carrello.
Si pone qui un primo e considerevole problema: c’è infatti una grande differenza fra la competenza strumentale nell’uso dei dispositivi (saperli usare in classe) e la competenza didattica in tale uso (saperli usare per favorire un effettivo apprendimento profondo, maggiore comprensione, motivazione, possibilità di personalizzazione a vantaggio degli alunni).
Un esempio di metodologia oggi in rapida diffusione va sotto l’ampio nome di gamification, parola che sostanzialmente rimanda all’uso di elementi di progettazione tipici del gioco in contesti che non sono di gioco. In poche parole, ti faccio imparare qualcosa che non c’entra con il gioco (per esempio, i principi della Costituzione italiana) attraverso modalità che richiamano i tipici elementi del gioco: sfida e competizione (con se stessi oppure fra singoli o gruppi), premi, feedback immediato, divertimento, livelli di difficoltà e via discorrendo. Ovviamente, ciò può essere fatto anche con tecnologie non necessariamente digitali, ma queste offrono più possibilità e flessibilità.
I vari “Kahoot” e giochi a quiz, escape room, software ludici di ogni tipo cominciano in effetti a far parte integrante dei dispositivi metodologici di diversi insegnanti. Ci sono ormai, del resto, evidenze scientifiche sul fatto che la gamification sostanzialmente funzioni (anche se un po’ meno di quanto non si creda), cioè produca effetti positivi sull’apprendimento degli alunni, in particolare, sul coinvolgimento in prima persona, sulla motivazione, sull’apprendimento e sul divertimento, anche grazie all’intrinseca natura dopaminergica del gioco.
Fra i contributi più recenti troviamo uno studio italo-svizzero, pubblicato nel 2022 (v. link sotto), il quale ha analizzato gli effetti positivi della gamification sulle competenze di lettura e scrittura nei bambini della scuola primaria (sia a sviluppo tipico che con bisogni educativi speciali), rilevando che gli elementi tipici del gioco hanno favorito, insieme agli aspetti sopra menzionati, lo sviluppo delle abilità di letto-scrittura ed hanno suscitato in loro un generale gradimento. E’ emerso anche che, mentre per i bambini senza particolari difficoltà di apprendimento andavano bene anche attività di gamification rivolte a tutta la classe, per quelli con bisogni educativi speciali erano più produttive attività gamificate di tipo personalizzato.
Va però anche detto che sono tantissime le strategie che (quale più, quale meno) funzionano nella didattica, e non necessariamente richiedenti alta tecnologia. Questi studi, del resto, pongono anche un punto fermo di assoluta importanza: le tecnologie digitali si rivelano utili se affiancano l’insegnamento più tradizionale, potenziandolo (ad esempio, sotto forma di esercitazione), ma non hanno in sé la forza didattico-educativa per sostituirlo, neanche in parte. Ecco perché la tecnologia che certamente non funzionerà mai sarà quella a cui l’insegnante avrà conferito una sorta di comoda e magica delega didattica.
E’ l’insegnante che, con la sua competenza, deve sapere utilizzare, modificare, personalizzare, adattare a contesti, alunni e situazioni in continua evoluzione questi nuovi (ma assolutamente non risolutivi) mediatori didattici. Altrimenti, dopo il primo momento di euforia associato alla dimensione del gioco, nel discente rimarrà ben poco in termini di effettivo apprendimento profondo.
Se si vuole quindi che i ragazzi imparino meglio, ad esempio, a leggere e a comprendere un testo, il grosso del lavoro sarà costituito sempre dall’esporli alla lettura e alle sfide della comprensione, ad un eloquio corretto, a dei momenti di riflessione sulla lingua e di arricchimento del vocabolario. Cose che si sono sempre fatte. Ma ciò che occorre soprattutto nella didattica è che l’alunno sia messo nelle condizioni di riflettere sulle attività che svolge, di porsi delle domande.
Insomma, questo imperioso trend tecnologico finirà col richiedere all’insegnante nuove competenze professionali (e capacità umane e creative). Sempre che questi voglia agire in modo efficace e non mollare acriticamente il futuro dei propri alunni alla tecnologia “baby sitter” di turno.
e:
https://journals.sagepub.com/doi/epub/10.1177/2042753018818342
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