Sta avvenendo, in ambito educativo, una guerra politico-ideologica che sta ferocemente straziando chi, con dedizione, professionalità e spirito di sacrificio mantiene in piedi le nostre scuole.
Il disorientamento delle coscienze, la confusione delle idee, la divisione dei cuori, costituiscono indici eloquenti del vero e intimo male delle istituzioni scolastiche. E la crisi è molto più vasta e più profonda di quanto possa apparire.
Nei programmi, nelle finalità educative, nell’organizzazione e nella gestione dei vari ordini di scuola, mancano ragioni ferme e immutabili di vita, valori culturali non negoziabili, che diano coerenza e intellegibilità all’umana esistenza. Per questo stiamo cadendo nella banalità, nell’incoerenza, nella frammentazione del sapere, nel compromesso e nella irresponsabilità.
Quando i giovani non possiedono più un nucleo centrale fermo e preciso intorno a cui polarizzare le loro azioni, quando non hanno più una meta chiara verso cui convogliare il fascio multiforme delle loro attività, allora è naturale che la personalità si dissolva in una successione di momenti vuoti e incoerenti.
La tragedia della scuola, il Ministro Cingolani lo sa bene, ha radici lontane nel tempo. Per individuarle bisogna risalire agli anni’ 70, anni in cui inizia il lento e graduale declino della funzione docente e un processo orientato a liberare la scuola da quelle rigidità culturali, secondo il parere di molti, dannose della natura umana.
La scuola scendendo da abdicazione in abdicazione ha iniziato a dismettere i panni di centro e polo di attrazione culturale, per entrare a far parte degli anonimi ingranaggi della burocrazia e dell’economia, a scapito della vera e autentica formazione umana, culturale, tecnica e scientifica.
Tempo fa un alunno di un Istituto Tecnico, fortemente critico verso i programmi scolastici, domandò il perché dello studio delle materie umanistiche e della storia antica in particolare. Lo studio della storia antica, risposi, provoca la lenta formazione di un codice di vita e di pensiero, che è il minimo comun denominatore della collettività. È ciò che permette a ciascuno di noi, prima di essere professionisti, tecnici o altro, di essere persone.
L’incessante assedio della civiltà tecnologica contro la Cultura, sta generando un esperanto del pensiero nel quale annega e si spegne la scintilla di ogni personalità intellettuale. Non c’è più il tempo materiale e il raccoglimento necessario per pensare, per stare con se stessi. L’uomo strumento di lavoro e anonimo ingranaggio della macchina industriale e produttiva, è ben lontano da quell’economia umana e solidale che fece grande l’Italia e gli italiani.
Se, oggi, la formazione delle menti e delle coscienze giovanili non è accompagnata da un adeguato percorso umanistico-culturale, la scuola finisce per diventare, forse lo è già, una monotona macchina rotatrice per la stampa di diplomati e laureati.
La tecnocrazia è uno dei più pericolosi attentati alla persona umana e i giovani, come circuiti di un apparecchio elettronico, sono sensibili alle variazioni culturali negative del nostro tempo.
Il primo effetto è quello di una progressiva anonima spersonalizzazione. Una volta negato e distrutto il centro della nostra umanità e tutto ciò che può dare significato alla vita, ai mille volti dell’esistenza umana, la personalità si discioglie nel frammentarismo della vita, di cui Pirandello fu l’amaro poeta.
L’abbandono della cultura, quella umanistica in particolare, disgrega la persona e la appiattisce sotto il rullo compressore della vita moderna. La persona è qualcosa di assoluto che esige un rispetto incondizionato. La banalità dei luoghi comuni non può mai ridurla al rango di un mezzo.
Fernando Mazzeo
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