Didattica

Le poesie di Natale imparate a memoria fanno bene alla mente, vi spiego perchè

     Nel recente articolo di  Gabriele Ferrante  (Imparare poesie a memoria: esercizio inutile o ‘talismano per il futuro’ come sosteneva Calvino?) si affronta un tema che mi sta a cuore: lo studio a memoria della poesia. Le poesie imparate a memoria diventano nostre con un esercizio che fa bene alla mente. Ma, come per la capacità di scrivere in corsivo, non basta reintrodurre lo studio delle poesie a memoria per cambiare in meglio la nostra scuola. Lo studio a memoria esige tempo, disciplina e presenta qualche difficoltà. Ci vogliono maestri che sappiano guidare i loro piccoli allievi verso lo studio (che è una cosa seria – “imparar giocando” non porta molto avanti) e che lo sappiano fare sì con fermezza, ma senza perdere la tenerezza. Ci vogliono maestri che rispettino, persino nella prima classe, la gratuità del sapere e non si arrendano alla dittatura dell’utile.

Importanza della memoria, facoltà vilipesa

   Se non avessi memoria, non potrei ricordare il racconto di Guareschi che accende, sull’atmosfera troppo spessa melensa che accompagna le feste natalizie, una luce scintillante di umorismo che brilla più di tutti gli altri lustrini. Questa pagina importante della letteratura del Novecento – almeno secondo il mio canone privato – l’ho citata più volte e adesso mi ripeto. Dunque, il racconto si trova nello Zibaldino di Giovannino Guareschi. Si intitola Fu a Natale, nel 1947 e racconta le vicende della famigliola (immaginaria ma non troppo) dello scrittore.

Si tratta, per i due piccoli di casa, di IMPARARE A MEMORIA la poesia di Natale. Albertino, il più grande, è un bambino piuttosto mite; Carlotta no, è una tremenda piccola bimba, dal carattere esplosivo – non a caso soprannominata la Pasionaria.  Quando è tempo di imparare la poesia di Natale, Margherita (moglie e mamma) si rimbocca le maniche e svolge il suo compito di precettrice a voce non propriamente bassa, tant’è che il condominio è ben presto consapevole che in casa Guareschi è in corso un dramma: la Pasionaria si rifiuta di imparare la sua poesia. La considera brutta e sciocca! Ecco l’ incipit della poesia: È Natale, È Natale, /è la festa dei bambini/è un emporio generale/di trastulli e zuccherini!  La Pasionaria trova questi non eccelsi versi inadatti al suo temperamento artistico e sputa fuori solo e soltanto la sua versione “corretta”: È Natale, È Natale,/è la festa dei cretini…”.

   Quando si avvicinano le feste natalizie, per fugare quella indistinta malinconia che deriva dal fatto che non si è più bambini, che il brulicare di persone ci appare frenetico e non festoso e che delle luminarie natalizie accese dalla fine di ottobre ormai non se ne può proprio più – ebbene, a me basta rievocare la Pasionaria che sentenzia È Natale, È Natale,  /è la festa dei cretini…” per diventare di buon umore.

   Così come mi fanno diventare di buon umore tante poesie dedicate da poeti gentili ai bambini; la grazia di Toti Scialoja; “Topo, topo/ senza scopo,/ dopo te cosa vien dopo?”, la bella morale di Gianni Rodari: Chiedo scusa alla favola antica,/ se non mi piace l’avara formica./ Io sto dalla parte della cicala/ che il più bel canto non vende, regala. Crescendo, ho appreso che l’antipatica fiaba della cicala e della formica non piaceva nemmeno a Olindo Guerrini, alias Lorenzo Stecchetti, alias Argia Sbolenfi, un poeta buontempone, trasformista ed eclettico:

La cicala avea cantato
tutto luglio a perdifiato.
Quando il caldo fu sparito,
si sentì molto appetito
ed andò dalla formica
domandandole una spica.
La formica le richiese:
«Che facesti l’altro mese?».
La cicala allora riprese:
«Ho cantato, o dolce amica!»
«Brava!» disse la formica
«Tu facesti arcibenone
ed invece d’una spica,
prendi cara, ecco un zampone!»
MORALE
Imitate in ogni cosa
la formica generosa.

    Altro che lezione sulla solidarietà! Sono apologhetti sulla generosità destinati a restare scolpiti nella memoria. Ed ecco che poi, al momento buono, li si recupera e i versi scherzosi balzano fuori, (come un ladrone, avrebbe detto Walter Benjamin)  per strappare l’assenso di chi ascolta.

   Crescendo ancora ci si confronta con la lirica, con la poesia alta (anche se per me alto e basso fanno eguale). I versi sono là, qualcuno li ha scritti perché noi li si legga, perché risuonino dentro di noi. Come la musica, anche la poesia va imparata a memoria, se vogliamo fare il primo passo per comprenderla.

Come la musica, anche la poesia va eseguita: ogni lettore che legga per la prima volta il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia ha due strade: arrivare sino in fondo e dimenticare ciò che ha letto o farlo proprio, trasformarlo, secondo la suggestiva immagine di Calvino, in un talismano per il futuro. Allora bisognerà impararlo a memoria: quando le parole diverranno talismano la domanda iniziale  – Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,/Silenziosa luna?- e il dubbioso desiderio finale –  Forse s’avess’io l’ale/ Da volar su le nubi,/ E noverar le stelle ad una ad una…- avranno risonanza dentro di noi e le potremo rievocare quando vorremo.

    Anche nel caso delle poesie imparate a memoria la scuola ha fatto i suoi danni, prima imponendole come una sorta di penso, poi mettendole al bando come cosa retriva e d’altri tempi. Quel che è peggio, la memoria come tale è stata messa al bando. D’altra parte, la memoria non gode oggi di grande fortuna: sono tempi di oblio collettivo e questa è una concausa del declino della nostra democrazia. Quasi nessuno ricorda, per esempio, su quali imprese, positive o negative che siano, i politici di ieri e di oggi hanno costruito la loro carriera. Troppi partono dal pregiudizio e, in base a quello, determinano la bontà o meno di una scelta, di un’azione.

Non esiterei a definire la memoria come la qualità più importante che la scuola è chiamata a sviluppare – compito ogni anno più arduo, visto che la “memoria esterna” di Internet esonera grandi e piccini dal trattenere nozioni, dati, informazioni nella propria testa. 

   Come mai oggi tanti insegnanti non diano alcuna importanza all’apprendimento a memoria è domanda semplice che richiede però una risposta complessa. Dovendo risolvere la questione in poche righe direi che questo è un tipico caso in cui il bambino è stato buttato via insieme con l’acqua calda.

Ad una scuola che imponeva un apprendimento prettamente nozionistico (dobbiamo generalizzare e siamo consapevoli che anche prima del Sessantotto molti insegnanti svolgevano il loro compito in modo intelligente) si è sostituita la scuola che vuole superare il nozionismo in modo semplicistico. Due sono stati, secondo me, gli aspetti più deleteri della scuola post-Sessantotto: l’illusione che si possa apprendere senza fatica e il puntare sulla sorgiva creatività del bambino, limitando a priori tutto ciò che è ripetitivo. Da questo duplice errore sono derivate conseguenze di non poco conto, i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti.

  L’“imparar giocando” ha preso il sopravvento e, paradossalmente, ha messo in difficoltà i più deboli. Ogni esercizio ripetitivo e considerato faticoso è stato abolito. Ma un buon maestro sa rendere interessante qualsiasi cosa e la ripetizione è, in ogni caso, la base dell’apprendimento. I bambini sopportano la ripetizione benissimo, anzi la amano (è esperienza comune la favola letta e riletta all’infinito, che il bambino non si stanca di ascoltare); i bambini sopportano anche la disciplina, purché non sia esercitata contro di loro. Senza disciplina, fisica e mentale, non si va da nessuna parte. O meglio, prenderanno la loro strada solo e soltanto coloro che hanno meno difficoltà e più aiuti esterni (verità banale, ma val la pena di ricordare che oggi la scuola è più classista rispetto a qualche decennio fa).

  Infine distinguerei la memoria come facoltà dalla memoria “utilitaristica”. La seconda, lo diceva già Dante, è importante: non basta comprendere, bisogna ricordare. Ma è soprattutto la memoria come facoltà che la scuola dovrebbe tutelare, come primo e necessario passo verso l’apprendimento. Rispetto alla vecchia scuola “nozionistica” ci sarebbe da modificare l’atteggiamento dell’insegnante.

Se un tempo era censorio o punitivo adesso dovrebbe essere paziente e incoraggiante, pronto a riconoscere come buoni anche i risultati parziali, purché ottenuti attraverso la giusta disciplina.  Accettare la disciplina è tra le prime condizioni che portano all’acquisizione del sapere e la conoscenza diffusa è tra le prime condizioni della democrazia di tutti, quella che Capitini chiamava omnicrazia.

Giovanna Lo Presti

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