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Le small school per la qualità della scuola?

Come operatori della scuola dovremmo salutare con piacere la decisione assunta al Parlamento che, nella Legge di Bilancio 2021, ha introdotto un’importante novità in tema di dimensionamento scolastico.

Per il 2021/2022 il numero minimo di 600 studenti e di 400 nelle piccole isole e nei comuni montani, che le scuole devono raggiungere, per avere un proprio dirigente scolastico titolare e un Direttore dei Servizi Generali Amministrativi, viene ridotto rispettivamente a 500 e 300 studenti.

Riportare i parametri a quanto già stabilito dalla legge madre per l’autonomia delle Istituzioni scolastiche (Legge 59 del 97) può tornare utile per migliorare il servizio scolastico e le performance delle studentesse e degli studenti in quanto permetterebbe di recuperare il concetto di “comunità educante”, auspicata già nel ’74 dall’art. 1 del Decreto Delegato 416, ma sopraffatta da un dimensionamento selvaggio, operato per la decisione di non porre per legge, accanto al numero minimo, anche un numero massimo oltre il quale non si sarebbe dovuto operare.

Le conseguenze sono state che molti istituti scolastici, attualmente, gestiscono più di 1000 alunni allocati in più plessi, con collegi docenti che superano i 100 docenti, determinando un appesantimento burocratico e amministrativo a scapito di una dirigenza più funzionale alla dimensione educativa, come brillantemente messo in luce dal libro “Gli equilibristi” di Massimo Cerulo.

Questo dimensionamento “selvaggio” ha fatto nascere, anche, il mito delle scuole dalle grandi dimensioni, assunte a modello, e quindi ambite dai Dirigenti scolastici e dai docenti; inoltre sono quelle alle quali le autorità locali prestano maggiore attenzione, anche in termini di risorse finanziarie in quanto ritenute, non sempre a ragione, maggiormente efficienti dal punto di vista sia dei costi, sia dei risultati di apprendimento.

Il modello dominante della grande scuola è in linea con la teoria della Gessellschaft che vede un qualsiasi ambiente sociale rispondere alla logica delle relazioni artificiali e impersonali, dello spazio inteso come “transito” e dunque “non luogo”, dei valori della funzionalità, dell’individualismo e dello scambio utilitarista.

Queste considerazioni che sono avallate da tanta letteratura pedagogica dovrebbero spingere i decisori politici e gli operatori scolastici a rivalutare ed operare per le “small school”, già sperimentate per migliorare la produttività del sistema scolastico negli U.S.A.

Si pensi all’esempio riformatore newyorkese del sindaco Bloomberg, che ha attivato un progetto decennale di riconfigurazione delle scuole, in particolare nel Bronx e a Brooklyn, trasformando le scuole grandi (Great Schools) in scuole di piccole dimensioni (Small Schools) con l’ipotesi che queste ultime siano più capaci di insegnare, di far collaborare docenti, di diminuire le problematiche legate ai comportamenti inadeguati degli alunni.

I risultati rilevati dall’équipe diretta da Benjamin Bloom hanno dimostrato che nell’anno scolastico 2005-2006, il 67% degli studenti di queste scuole si sono laureati, di contro al 59% delle scuole di grandi dimensioni; inoltre il 41% degli studenti delle Small School di New York ha conseguito il Regent diploma (titolo di studio molto qualificato) mentre gli altri si attestano al 35%.

Altre indagini rinforzano la tesi dell’efficacia delle scuole di piccole dimensioni. Mary Anne Raywid, famosa per aver fondato il movimento School Within a School, in uno studio ad hoc, mette in luce che in genere nelle “small schools” gli studenti svantaggiati superano nei risultati quelli svantaggiati che frequentano le scuole più grandi e dunque queste scuole piccole si rivelano più capaci di colmare i gap tra gli allievi.

Altre ricerche hanno cercato di definire i limiti o il range per le dimensioni delle scuole raccomandando un range tra i 200 e i 350 allievi per le scuole primarie e tra i 400-500 per le scuole superiori e sottolineano come in caso di superamento di tale livelli il “clima sociale della scuola diventa impersonale e burocratico. Gli insegnanti non conoscono gli altri insegnanti e gli altri allievi così come accade invece nelle piccole scuole”. Inoltre tanto gli stessi insegnanti, quanto gli studenti, partecipano meno attivamente alla vita scolastica in tutti i suoi risvolti. 

L’idea della scuola comunità e l’attenzione alle piccole dimensioni, tra l’altro, si intersecano molto bene con la storia e la cultura dell’Italia dei mille paesi e delle cento città che si porta dietro, non solo la tradizione medievale dei comuni, ma anche quel tessuto di piccola imprenditorialità che costituisce ancora oggi la forza vitale e creativa della nostra economia.

Da questo punto di vista dovrebbe essere interesse di tutti che la scuola si intersechi con questo ambiente reale e vivace correggendo le attuali strutture verticisticamente ideate che alla fine sono mal tollerate dalla società, ma anche dalla stessa scuola che ne paga i costi in termini di efficienza e di efficacia.

La sfida della comunità è necessaria anche per rispondere ai disagi esistenziali delle ragazze e dei ragazzi, delle studentesse e degli studenti che in questi giorni si stanno palesando in tutta la loro gravità con le loro dipendenze dai social, sino al male estremo.

È in gioco il futuro delle giovani generazioni e il rilancio della formazione come settore decisivo per il nostro progresso civile. 

Redazione

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