Ieri sera la televisione ha dato conto di una notizia che ha dell’incredibile in questi tempi sempre più cupi in cui il divario fra ricchi e poveri si è fatto sempre più abnorme. La notizia riferita parla di un tale della regione Sicilia che è andato in pensione a 53 anni alla chetichella senza battere ciglio. Perbacco. Complimenti, volpone. Il tale, dopo essersi assicurato il vitalizio, è diventato assessore comunale percependo un altro stipendio. E non è finita. Il fausto pensionato si è infine consacrato all’impresa introitando ulteriori lauti guadagni mentre percepiva, contemporaneamente, le precedenti somme grazie all’impunità sconsiderata dello stato. Di uno stato scellerato, aggiungeremmo noi, che non conosce ancora bene o non vuole applicare, dopo la Rivoluzione francese e il ’68, l’equità e la solidarietà sociale di cui ha bisogno questo nostro paese ridotto in miseria e prostrato da quelle malaugurate soperchierie che non smettono di riempire i rotocalchi.
È ora di dire basta e di far sentire la propria voce contro il degrado delle istituzioni e i favoritismi di un sistema politico che ha fatto carta straccia di ogni diritto fondamentale. Come la mettiamo con tutti gli spregiudicati privilegi che impazzano in questo crasso mondo di ricchi beoti? Con la casta che non si perita di tagliare sul ceto medio-basso ma anzi rincara la dose senza colpo ferire? Che non abbassa la guardia sui ceti più ricchi con infamante e perverso accanimento? Coi parlamentari e consiglieri regionali che guadagnano superdenari che nessuno ha voluto tagliare per un equanime contrappasso e che continuano a ingrassare, con quelli, le loro favorite consorterie domestiche? C’è bisogno, se non si fosse ancora capito, di cibo morale. L’esempio eclatante dei lavoratori della scuola di Quota 96 rimasti invischiati nelle maglie della legge Fornero, fra tanto marasma vergognoso, grida vendetta. L’«errore tecnico» deve essere modificato.
Il governo Letta, con tutte le incongruenze che predominano nel sistema, dal parlamento alle regioni alle più remote propaggini dello stivale, ancora tentenna nel sanare il caso in questione. Nel voler procrastinare, malgrado le buone intenzioni del sottosegretario al Lavoro Carlo Dell’Aringa, un diritto acquisito per via della discrepanza di dati forniti dal Miur e dall’Inps. Eppure qualcuno aveva assicurato che, a dispetto della platea dei beneficiari, il diritto alla pensione negata e riconosciuto dai tribunali avrebbe dovuto essere sanato da questo esecutivo. L’onorevole Boccia per primo e con incisiva sottolineatura in più occasioni. Viene da chiedersi, qualora non si andasse in questa direzione, dove starebbe di casa la giustizia, se ancora sussiste. Lo chiediamo a Manuela Ghizzoni che sicuramente è persona degna e combattiva; ma dovremmo chiederlo alle onorevoli Marzana, Pannarale, Centemero e a tutti quei rappresentanti politici che stanno combattendo per questi educatori mortificati e sviliti sull’altare sacrificale di un torto subito.
Il Palazzo, come lo chiamava Pasolini negli scritti «corsari», è ormai satollo di conquibus, di immunità, di vantaggi, di regalie, di prerogative di vario genere divenute, proprio per questo, sempre più odiose, impopolari e intollerabili. E il popolo, che scalpita da troppo tempo, e strepita, e implora inascoltato, e intima alla moralità, non ne può più. Arranca sempre più attonito e miscredente in cerca di una vana giustizia. Deserta le elezioni, lo sappiamo. Ma no, continuiamo pure la commedia, dicono certi inveterati impertinenti della politica; facciamo finta di nulla, replicano altri irrispettosi osservatori, perché è meglio ignorare, tanto i poveri rimangono tali e non si ribellano più di tanto.
E chi lo ha detto? Siamo proprio sicuri che il malcontento non continui a fare proseliti dopo il “grillismo”? Come si fa a non capirlo o, peggio, a sottovalutarlo? Come si fa a ingozzarsi come sempre o con forse maggior impunità di prima senza nemmeno quell’onorevole decoro che dovrebbe far entrare in azione, quanto meno, un fremito di dignità? Non si può continuare a negare, pazzescamente, che la redistribuzione dei redditi, che non è certo una panzana dell’ultima ora né una trouvaille proletaria inventata da Bertinotti o da Landini, dovrebbe essere la prima cosa per un governo che si è proclamato sostenitore del cambiamento. Sulla questione dei lavoratori della scuola di Quota 96, crediamo noi, si giocherà la coerenza politica e la logicità dell’attuale esecutivo; e se dovesse fallire il tentativo di risolvere questo caso clamoroso che tanti rotocalchi ha riempito e divenuto caso nazionale, sarebbe l’eclisse di ogni proposito di riformismo, sarebbe lo scacco irreversibile della nomenclatura.
La ragione imporrebbe di tacere nell’imminenza della seduta alla commissione Lavoro di martedì prossimo alla Camera, dove si discuterà il testo unificato delle due proposte di legge Ghizzoni e Marzana in materia pensionistica per la scuola. Perché da lì quel testo dovrebbe poi transitare verso la commissione Bilancio per i prescritti pareri e per la verifica delle coperture finanziarie. Eppure non si può sempre tacitare la propria coscienza. Non sempre è possibile stare a guardare indolenti e benevoli, beoni e caproni. Il cronista, che è anche docente, ha il dovere di «denudare» il re, come disse tempo fa Manuela Ghizzoni a questo proposito, contestando senza più remore queste cose cristallizzate dai più stigmatizzabili opportunismi politici. Soprattutto se 5.000 individui del mondo della conoscenza devono ancora, ultrasesantenni, fare la questua miseramente e stancamente per poter uscire dal lavoro dopo 39/40 anni di servizio.
Vorremmo tanto, per dirla con John Lennon, che il grido agghiacciante di “Mother” straziasse l’orecchio di chi di dovere e che quel grido riecheggiasse al di là della ragion di stato per arrivare in quei luoghi meandrici dell’io dove certi caimani della politica abitano sguazzando nel loro ipocrita puritanesimo, magari stracciandosi le vesti dinanzi ai drammi più tremendi, come quelli dei più poveri e degli indigenti, degli esodati, dei senza tetto, degli immigrati e via di seguito, però rimanendo chiusi nella loro inoperosa noncuranza, in una tecnica politica dilatoria che ha fatto ormai il suo tempo e non paga più.
La «volontà politica» è stata dimostrata, ad onor del vero, da tutte le coalizioni riunite alla XI commissione Lavoro che dovrebbe licenziare il testo unificato di cui abbiamo parlato. Fonti parlamentari ci dicono che stavolta c’è l’intenzione di andare fino in fondo per mettere la parola fine alla vexata quaestio. Se davvero è così, ci auguriamo che il nostro monito/memento possa servire a suscitare maggior lena nei diretti interessanti per proseguire nella lotta di questa vicenda dove siamo andati davvero oltre il lecito e il pensabile.