Nelle poesie di Giacomo Leopardi (1798-1837) “signoreggia il genio rivoltoso”, tanto da meritare “la più severa delle censure, col Damnatur”, ovvero la dichiarazione di dannazione. Con questa motivazione il governo austriaco del Regno Lombardo-Veneto negò l’autorizzazione nel 1831 all’editore veneziano Giovanni Battista Missiaglia, libraio all’Insegna dell’Apollo in Bocca al Campo di San Moisè, che tentò di pubblicare i “Canti” di Leopardi, chiedendo all’ufficio di censura di ristampare l’edizione appena uscita a Firenze dai torchi di Guglielmo Piatti.
Il documento conservato nell’Archivio di Stato di Venezia (foglio di censura del 17 giugno 1831) è trascritto integralmente per la prima volta da Marco Callegari, dottore di ricerca in scienze bibliografiche all’Università di Udine, nel volume “L’industria del libro a Venezia durante la Restaurazione (1815-1848)”, pubblicato da Olschki.
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L’esame effettuato dal censore Pietro Piantoni si rivelò pienamente negativo. La poesia “All’Italia” di Leopardi, ad esempio, mostrava “quale sregolato entusiasmo” agitasse l’autore, che fieremente disdegnava “di attemperarsi a quelle ordinazioni politiche che pure togli mento degli orrori seminati in Italia dallo sfrenato orgoglioso spirito di libertà provvidamente il Cielo tra noi stabilì”.
Anche dieci anni più tardi, con Leopardi ormai “defunto da più anni”, il poeta continuava a essere considerato un pericoloso sovversivo e pertanto da vietare. Lo rivela una comunicazione del 25 giugno 1841, conservata nell’Archivio di Stato di Venezia, a firma del governatore austriaco del Veneto dal 1828, Giovanni Battista Spaur (dal 1840 anche governatore della Lombardia), indirizzata ai delegati provinciali, all’ufficio di censura e alla direzione centrale di polizia.
Spaur impedì anche allora la pubblicazione dei libri del poeta di Recanati, in particolare i “Canti”. Spaur ricordava che già nel 1831 i testi poetici leopardiani “a motivo della loro sommamente pericolosa tendenza colpiti furono del più severo divieto”, poiché “spirano la maggiore irreligiosità e principi anti sociali”.
Il governatore Spaur invitava, pertanto, la polizia e la censura, a fronte delle richieste degli editori veneziani, alla “più estesa ed attenta vigilanza, affinché le opere lasciate da Leopardi in queste Venete Province non vengano ammesse alla stampa, o clandestinamente dall’Estero introdotte e qui diramate”. (RaiNew24)
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