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L’esame di Stato: per quest’anno facciamone a meno

Passato remoto

Cinquant’anni fa, nel 1969, veniva introdotto un nuovo Esame di Stato “sperimentale”. Sarebbe durato per trent’anni: sull’onda della contestazione studentesca, quello che prima era un incubo per ogni studente, diventava una prova facilitata: due scritti e due prove orali, su quattro materie estratte a sorte poco prima dell’esame. Una materia la sceglieva il candidato, delle quattro materie non si doveva assegnare quella a lui più sfavorevole e perciò, di fatto, la preparazione orale si riduceva a tre materie. Nel 1997-98 i burocrati di Viale Trastevere pensarono bene di suggerire al Ministro Berlinguer un cambiamento: tre prove scritte (la terza era la famosa e tremenda “terza prova”) ed un colloquio orale che, nella vieta prassi dell’esame si ridusse ad una interrogazione-lampo su tutte le materie. Venne modificata anche la composizione della commissione d’esame. Il punto più basso lo si toccò nel 2001, quando la commissione fu tutta interna, a parte il presidente che, comunque, “giocava” su due classi. Il provvedimento (Moratti-Tremonti) aveva natura puramente economica ed era legato al risparmio sulle diarie dei commissari. Poiché tale formula proponeva, di fatto, una inutile ripetizione dello scrutinio finale, abbastanza presto si tornò alla commissione mista che conosciamo. Sino al 1998, inoltre, la domanda di partecipazione alle commissioni d’esame la si faceva chiedendo sedi collocate in tutto il territorio nazionale. Lo Stato pagava le spese di trasferta (come peraltro avviene per tutti i lavoratori in trasferta): insegnanti del Nord andavano al Sud e viceversa. Chi scrive, per ragioni climatiche e paesaggistiche, ha sempre chiesto di andare all’istituto tecnico di Lipari, senza mai riuscirci. Altri tempi, ancorché non proprio tempi felici.

Passato prossimo

Lo scorso anno la pensata improbabile e ridicola delle “buste” con lo “spunto” per il colloquio speravamo innescasse almeno una piccola sommossa tra i docenti, per manifesta stupidità dell’“innovazione”. Con dispiacere dovemmo constatare che, tra gli insegnanti, la discussione s’era invece spostata sull’opportunità o meno di un certo “spunto”. Quest’anno, anche senza il Coronavirus, non avremmo avuto le “buste”, ma sarebbe restata la sostanza: il colloquio doveva partire da materiali preparati dalla commissione d’esame in un’apposita sessione di lavoro per“verificare l’acquisizione dei contenuti e dei metodi propri delle singole discipline, la capacità di utilizzare le conoscenze acquisite e di collegarle per argomentare in maniera critica e personale anche utilizzando la lingua straniera”. Peccato che non esista un apposito girone infernale per gli estensori di testi siffatti. I requisiti d’ammissione all’esame di Stato sarebbero stati i seguenti: frequenza scolastica, profitto scolastico, partecipazione, durante l’ultimo anno di corso, alle prove a carattere nazionale predisposte dall’INVALSI, svolgimento delle attività programmate nell’ambito dei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (ex Alternanza scuola-lavoro), secondo il monte ore previsto dall’indirizzo di studi. Prove Invalsi e alternanza erano state proposte nel 2018-2019, ma il ministro Bussetti aveva derogato con apposita nota. L’ex-ministro Fioramonti si era limitato a dire che le prove Invalsi, anche se obbligatorie, non avrebbero inciso sull’esito dell’esame. Questo a riprova che, come sosteniamo da anni, non servono a nulla se non a confermare il mito della “misurabilità” scientifica del sapere.

Presente: esame e pandemia

Quest’anno, però, non avremo l’esame “normale”: c’è la pandemia e nemmeno il ministro Azzolina si spinge a pensare che si possano svolgere prove regolari. Il dibattito è, in questi giorni, tutto incentrato sull’esame “in presenza”, ridotto ad un colloquio della durata massima di un’ora. Gruppi crescenti di insegnanti raccolgono invece firme per l’esame “a distanza”, sottolineando il pericolo rappresentato dalla parziale riapertura delle scuole. Se mettessimo da parte ogni afflato retorico sull’esame di maturità e sulla “notte prima degli esami” dovremmo riconoscere che, per come siamo messi, l’unica soluzione accettabile sarebbe quella di procedere allo scrutinio finale dei maturandi senza alcuna prova aggiuntiva, affidando alla responsabilità dei consigli di classe, sotto la supervisione di un presidente esterno, la definizione del voto d’esame. I risultati è certo che non si discosterebbero troppo da quelli che sarebbero derivati da un esame “vero”. I dati relativi agli ultimi due anni parlano chiaro: nel 2018/2019 il 96,1% degli scrutinati sono stati ammessi all’esame , rispetto al 96% del 2017/2018; degli ammessi lo scorso anno è stato diplomato il 99,7%, rispetto al 99,6% dell’anno scolastico precedente. Tenendo conto che all’esame partecipano anche i privatisti, la percentuale dei diplomati si avvicina davvero alla totalità dei partecipanti. Allora ci chiediamo se quest’anno, in una situazione così drammatica, sia davvero il caso di mantenere in vita un rito che, nella migliore delle ipotesi, potrebbe essere un saluto finale degli insegnanti ai propri studenti. Che poi abolire l’esame di Stato trovi un ostacolo nell’art.33 della Costituzione, che lo prevede come conclusivo del ciclo di studi superiore è vero: ma, così come da due mesi si procede in una sorta di stato d’eccezione (che limita gravemente, ma motivatamente, le libertà personali) allo stesso modo si potrebbe invocare l’emergenza della pandemia per un provvedimento che abolisse l’esame e che avesse le caratteristiche che gli permettono di convivere con lo stato di diritto – e cioè il presupposto di fatto(l’emergenza sanitaria, una delle poche cose che nessuno nega) e la temporaneità.Si torni a parlare di esami il prossimo anno, si seguano ora gli esempi di Francia e Regno Unito, che hanno già deciso di non fare gli esami. La serietà è una virtù tenuta in poco conto qui da noi: se avesse lo stesso successo della insopportabile enfasi retorica che ci ha accompagnato in questi tragici mesi, oggi dovremmo dire che la scuola ha fatto tutto quello che poteva, ma non ha potuto far tutto. I dati ministeriali ci dicono che un milione e seicentomila studenti non hanno potuto usufruire della “didattica a distanza”. Tra questi ci saranno senz’altro parecchi maturandi. Ragione di più per non dare il via ad un esame che si porrebbe come parodistica ed anche ingiusta conclusione di un anno scolastico anomalo, in cui il vero insegnamento, semmai qualcuno volesse recepirlo, ce l’ha dato la Natura, ricordandoci la nostra fragilità umana ed indicandoci l’unica via d’uscita: una reale e sentita solidarietà fra gli esseri umani. Adesso che la bozza dell’Ordinanza è appena uscita ci possiamo rendere conto di quanto l’amore per la forma e l’inclinazione per la burocrazia possano sormontare ogni buon senso e di quanto il desiderio di mantenere le procedure normali sia stonato in tempi di emergenza.

Giovanna Lo Presti

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