I lettori ci scrivono

L’eterna bellezza della docenza: una riflessione su passato e futuro

Non prendetemi i giorni perché alla canzone sia sempre l’alba, e i miei sogni voglio nascano col nuovo giorno. Non prendetemi i giorni perché domani è ancora ansia di sole, verginità di nuove emozioni, e il futuro senza nome e l’avvenire senza età.

E li osservo quei volti feriali. E li incontro ogni giorno. E non puoi non riconoscerli. Non puoi confonderli. Segnati come sono, non tanto o soltanto dalle rughe del tempo, bensì dalla signatura di una vita totalmente ed interamente consegnata, non in dovere, ma per amore a ciò per cui si è trascorso il tempo della propria giovinezza, con lo sguardo rivolto a sogni che sempre si è voluto nascessero all’alba del nuovo giorno, e che ora avvertono la necessità di un risveglio ove custodirsi, posare, riposare.

Sono volti di chi suo malgrado avverte il tempo scaduto dell’offerta. Un dialogo che segna la distanza di mondi, culture, pensiero, azione, dove la saggezza della storia è, se non negata, di certo sentita come qualcosa che non tocca, non rientra nel quotidiano di un presente ormai tecnologico, per cui il pensiero e la sua azione di comunicazione attraverso la parola, impoverisce il vocabolo, zittisce generando un silenzio che è vuoto, distacco, tempo scaduto. Superato. Passato. E il canto di sirene di colore non incanta più. Isole nella grande isola sociale.

Sono i volti di un mondo additato da una subcultura che non ha mai, per motivi di interesse, guardato avanti, guardato oltre, in linea con tutto ciò che avanza, modifica, cambia. Sono i volti che puntuali sentono la spada di Damocle del bullismo sociale. Sono i volti di quanti vorrebbero chiudere in armadi polverosi la conoscenza libraria, una didattica che non è più in grado di consegnare saperi, omologata su fogli e documenti e incontri senza senso, senza valore, senza realtà. Obbediente al Sistema, che mette tutti dentro il contenitore Azienda, la cui filosofia non è più la crescita della persona umana, del valore della relazione umana, della comunità e della socialità, dalla conoscenza non soltanto di saperi quanto soprattutto di quella etica che differenzia l’Uomo dal mondo animale.

Sono i volti stanchi e delusi: servi inutili come quelli del Vangelo, che attendono il ritiro di Stato dopo anni di lavoro e dedizione e donazione.

E soltanto l’incontro con il futuro, dato da altri volti, quelli senza rughe, quelli spensierati, quelli del tempo dell’adolescenza, consente loro l’ultima bellezza: l’eterna bellezza della docenza.

E li incontro ogni giorno nei corridoi lunghi, tra cartelle in spalla, libri e cartacce sottobraccio, lenti talvolta spessi di occhi consumati tra letture e computer nella vigile penombra tra i guizzi di una lampada che illumina il volto e sentire una storia realizzata dall’incontro di una coscienza rispettosa e coerente al proprio sentire e il logorio di una frustrazione che interroga e tenta al dubbio sino forse a credere che non è stato abbastanza.

Sono il volto di una Scuola che, malgrado tutto e nonostante tutto, resta fedele alla sua promessa, al suo di giuramento di Ippocrate: quell’essere sempre e comunque magistra e anche mater.  Che nella sua carne accetta di perdere tutto per lasciarsi ricreare per il nuovo giorno, al quale consegniamo pagine consunte di un racconto antico come le montagne, ma sempre moderno nelle parole del dialogo che è incontro di saperi e di sogni.

Li raccolgo tutti, questi volti. Li raccolgo tutti in un abbraccio come ad una e in una preghiera. E confondo anche il mio tra e in loro. Orgoglioso e orgogliosi di essere strumento perché sia ancora possibile, ci sia un ancora possibile raccontare e conservare tradizioni, riti, cultura, sapere che costituisca, sia, dica Paese. Dica e racconti Italia.

Grazie a tutti i colleghi e amici colleghi. Grazie Scuola.

Mario Santoro

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