I lettori ci scrivono

Lettera a Valditara: “gli insegnanti devono fare tutto di corsa, come si può entusiasmare?

Di fronte agli allarmanti dati sull’uso di sostanze pericolose da parte degli studenti, il ministro Valditara ha tirato in ballo ancora una volta le responsabilità della scuola, parlando di sensibilizzazione da attivare e facendo leva su una presunta “nuova didattica” che sappia maggiormente entusiasmare ed orientare gli studenti alla vita. 

A scuola c’è ormai un corso per ogni cosa. La scuola, “brutta e cattiva”, è diventata ormai un ritaglio di tempo in mezzo a un mare di attività, queste sì diventate il vero centro della scuola. La risposta ad ogni disagio è sempre la stessa: un corso in più (e ore in meno per fare il proprio lavoro). La scuola è diventata una magnifica dispensatrice di corsi che dovrebbero risolvere ogni problema possibile, ma che alla fine non risolvono nulla. Interroghiamo infatti la realtà: dopo tutte queste innovazioni dalle quali è stata invasa, la scuola di oggi educa meglio di quella di ieri? Con tutte le sensibilizzazioni cui sono stati sottoposti, i giovani sono diventati più educati, più sensibili alle regole, meno istintivi nella propria azione, più capaci di valutare le conseguenze delle loro azioni? Direi di no, altrimenti che bisogno ci sarebbe di cercare sempre nuove soluzioni sé quelle già introdotte funzionassero? Quanto sarebbe rivoluzionario, al contrario, un ministro dell’istruzione che, prendendo atto della realtà, anziché inondare le scuole di soldi perché facciano di tutto tranne che insegnare, spingesse le scuole affinché tornino a svolgere con serietà il proprio compito, ovvero quello di istruire ed educare attraverso l’insegnamento!

Ministro, Lei vorrebbe una scuola che sappia “ridare entusiasmo ai giovani”. Ma scusi, a che cosa si dovrebbero entusiasmare i ragazzi, in questa scuola? All’educazione civica e a quella ambientale? A un corso sulle dipendenze? Si potrebbero forse entusiasmare per qualche disciplina come la letteratura, la filosofia, la fisica. Ma come possono farlo, se non si lascia loro il tempo per “entrarci” davvero, se alla scuola si chiede di essere sempre meno “scuola” e sempre più agenzia di informazione e di sensibilizzazione? Oggi gli insegnanti sono costretti a fare tutto sempre più di corsa, a tagliare e a selezionare come se non ci fosse un domani, a restare sempre di più sulla superficie delle cose a causa del tempo sempre sottratto da altro. E come si fa ad appassionarsi a qualcosa, se ciò a cui potersi appassionare è diventato qualcosa da fare nei ritagli di tempo?

Lei dice che la scuola dovrebbe “ridare ai ragazzi la voglia di credere in se stessi” e anche “orientare molti ragazzi che vivono nella nebbia e si chiedono: dove andrò? Quale scelta farò?”. Un ragazzo potrà fare scelte corrispondenti a sé – cioè orientarsi, come dice Lei – nel momento in cui lo conosce, questo sé. E conoscersi vuol dire conoscere le proprie predisposizioni, il proprio metodo di lavoro, il proprio metodo di ragionare, le proprie qualità e anche i propri limiti. E come possono fare questo, se non lavorando seriamente e mettendosi continuamente alla prova? Davvero crediamo che, più del lavoro serio e quotidiano, ad orientare possa essere il mitico “orientatore” (che poi altro non è che un povero docente – profumatamente retribuito – al quale, neanche fosse un redivivo Nostradamus, si assegnano capacità divinatorie sul futuro di decine e decine di studenti)? Come possono quindi i giovani credere in loro stessi se si impedisce loro di arrivare a capire chi sono, loro stessi?

Lei chiede “un ripristino della cultura del lavoro”. Che però non si ripristina potenziando l’inutile educazione civica, come Lei propone. Non è un corso – neanche se potenziato – a poterlo fare. La cultura del lavoro si impara “costruendosela” ogni giorno, abituandosi ad essa e vedendone il valore, chiedendo ai giovani il rispetto dei tempi, delle cose, degli altri (a cominciare dagli insegnanti), la puntualità negli orari e nello svolgimento del proprio dovere, la serietà nel lavoro. La cultura del lavoro, insomma, si può ripristinare solo attraverso il lavoro, ripristinando cioè una scuola in cui si chieda di lavorare con continuità e con impegno. La stessa che Lei sta sacrificando sull’altare delle sensibilizzazioni. Immagino che Tamberi non sia diventato il campione che è seguendo un corso di 30 ore sul salto in alto. Credo piuttosto che si sia allenato tutti i giorni per anni, alzando sempre più l’asticella per scoprire il limite delle proprie potenzialità, facendole infine maturare con la fatica e con il lavoro quotidiano. Anche monotono. Anche ripetitivo. Chi l’ha detto che la ripetitività sia dannosa, e che la scuola per essere più accattivante, debba evitarla? Ma la scuola deve divertire o deve educare?

Di fronte all’imbarbarimento di cui siamo tutti testimoni e che non accenna a diminuire (anzi!) nonostante tutti gli interventi degli ultimi anni, l’errore più grave che si possa commettere è esattamente quello che si sta commettendo di continuo, e cioè quello di considerare la scuola un luogo di informazione e non invece di formazione. Due lettere che nella scuola fanno tutta la differenza del mondo.

Marco Radaelli

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