Gentilissimi ministro Giannini e Sottosegretario Faraone,
da quando sono stata inserita, dalla Varkey Foundation, nella lista dei 50 “migliori” insegnanti al mondo molte sono state le lettere e telefonate di genitori che, vista la mia temporanea “celebrità”, mi chiedono di rappresentarli e di far arrivare a Voi e all’opinione pubblica il loro disagio e il loro dolore. Me lo chiedono come un mio dovere morale.
Sono un’insegnante di sostegno ed è chiaro quindi che sto parlando di genitori di ragazzi con disabilità.
Questa mattina l’ultima telefonata: un pianto. Mi sono quindi decisa a scrivere.
Nella mia carriera scolastica sono stata fortunata. I miei 17 anni come docente alle dipendenze dello stato, 11 dei quali nel ruolo di insegnante di sostegno, sono stati segnati da collaborazioni e incontri positivi. Ho avuto sempre dirigenti scolastici che mi hanno sostenuto e colleghi aperti al dialogo. So però di essere una “privilegiata”. Sono invece ben consapevole che la parola “Inclusione” in molte scuole è un involucro vuoto e, da quando mi occupo, presso l’università di Padova, di formazione dei futuri docenti curricolari e di sostegno, posso toccar con mano, attraverso la testimonianza dei miei studenti/docenti, le anomalie di una scuola che dell’inclusione ne ha fatto, solo a parole, una bandiera di qualità.
Al di là delle poche risorse, quello che fa più male è l’indifferenza, l’isolamento (la classe differenziale è stata sostituita dall’aula di sostegno), l’inadeguatezza professionale di troppi docenti che considerano lo studente con disabilità “un corpo estraneo” rispetto alla classe, un “soggetto” la cui istruzione spetta al docente di sostegno e all’eventuale operatore sanitario, certamente non a loro. Poi c’è la sufficienza con cui vengono trattati i ragazzi con disabilità ai quali, in alcune realtà, sembra venga fatto un grosso favore “accoglierli” e così i genitori entrano a scuola in punta di piedi, chiedendo il permesso. Si accontentano, di un orario ridotto: massimo 9 ore di sostegno, alle superiori, su 32 ore di scuola a cui si sommano eventualmente quelle 4/5 ore degli operatori socio sanitari. Se poi manca il docente di sostegno o l’operatore sono subito pronti a portare via i loro figli o a tenerli a casa perché non vogliono essere di peso a nessuno e, d’altra parte, non vogliono che i loro figli facciano da tappezzeria in una scuola che non è in grado, per diverse ragioni, di “accoglierli” dignitosamente (l’inclusione è altra cosa). Questi genitori, piccoli-grandi eroi, che dedicano la loro vita ai propri figli con l’angoscia nel cuore al pensiero del giorno in cui per loro non ci saranno più.
Sembra poi che la qualità dell’apprendimento per i ragazzi con disabilità non sia una questione prioritaria tanto… e dietro a quel “tanto…” si nascondono tutta la superficialità, e menefreghismo che hanno caratterizzato il processo di integrazione prima e di inclusione poi di questi ragazzi nelle classi normali a partire da quel lontano 1977 (L.517). Come giustificare, altrimenti, la mancata formazione dei docenti di classe che dovevano, allora, e dovrebbero, ora, insieme all’insegnante di sostegno, realizzare, attraverso una didattica efficace, l’inclusione degli studenti “speciali”? Nella scuola si sa che non esiste un obbligo alla formazione/aggiornamento del personale docente in servizio. Tutto viene lasciato all’iniziativa personale e così la qualità dell’istruzione, nel nostro paese, si presenta a macchie di leopardo e i ragazzi si giocano al lotto la partita della vita e del loro futuro.
Succede quindi che tutta la normativa, che pone il sistema scolastico italiano all’avanguardia nel mondo in tema di Inclusione, rimanga lettera morta, una bella teoria ma la realtà è altra cosa.
Questo sistema schizofrenico all’italiana trova la sua massima espressione, in fatto di inclusione scolastica, nella figura dell’insegnante di “sostegno”.
In origine, con la L.517/77, l’integrazione a favore degli alunni “portatori di handicaps” (art.2) doveva essere attuata attraverso la prestazione di “insegnanti specializzati”. Tale delicato compito, infatti, doveva essere affidato a personale di ruolo con preparazione specifica e formazione quindi superiore rispetto ai colleghi curricolari. I corsi di specializzazione, anche se sono cambiati, in durata e contenuti, nel tempo, non sono mai stati una passeggiata. Attualmente i bandi Universitari prevedono un anno accademico di studio con un costo per lo studente di ca. 3000 € . Chi può frequentare i corsi, previa dura selezione su base regionale, sono docenti già abilitati nella propria disciplina.
Nel corso degli anni, però, si è abbandonata la definizione di “docente specializzato” a favore dell’insignificante “docente di sostegno”, puro caso?
Lei sa benissimo, sig. Ministro, quanto importanti siano le parole, il loro potere di formare le idee, di definire la realtà e di riempire di significati complessi atti e pensieri. C’è una bella differenza nella pratica e sostanza tra le definizioni “docente specializzato” e “docente di sostegno”. Quest’ultima, in effetti, svuota di significati importanti la professione stessa promuovendo atteggiamenti e pensieri che la sviliscono, la impoveriscono, la deformano, intaccando la stessa dignità del “significante” e di coloro di cui questi si occupa. Ecco allora l’insegnante di sostegno diventare tale anche per l’organizzazione scolastica nel momento in cui viene tolto dalla classe e dal ragazzo di cui si occupa per fare supplenza altrove. Il sostegno poi si è dimostrato utilissimo, nel corso degli anni, come ammortizzatore sociale della scuola. Tolta la parola “specializzato” il gioco è diventato semplice: chiunque poteva insegnare ai ragazzini con disabilità (tanto….), docenti alle prime armi, quelli perdenti posto senza alcuna preparazione. Siamo arrivati di recente poi, nella scuola secondaria di secondo grado, alla soppressione delle aree di specializzazione (scientifica, umanistica, tecnica, motoria) per favorire non certo l’apprendimento dei ragazzi con disabilità i quali hanno diritto ad avere un “sostegno” competente, come giustamente sostenuto nella sentenza n.245 del 26 gennaio 2001 del Consiglio di Stato, ma solo per facilitare la mobilità dei docenti.
Sig. Sottosegretario, mi rivolgo ora soprattutto a Lei che si sta impegnando nella riforma del sostegno. Apprendo con piacere che finalmente si considera prioritaria la formazione di tutto il personale in servizio. Ci sono, però, alcune Sue affermazioni che mi lasciano un pò perplessa.
Prima di tutto la sua intenzione di tornare a un modello d’interpretazione della disabilità prettamente medico, basato sul concetto di disabilità inteso come divergenza rispetto ad una normalità fisica. Un modello che porta alla discriminazione, ormai rifiutato anche dall’OMS, attraverso l’adozione dell’ICF e soprattutto dalla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (2006). Sarebbe un tragico ritorno al passato. Fuori luogo quindi la Sua volontà di voler basare la formazione del futuro docente specializzato su nozioni eziologiche, che non servono a nulla, poiché non esiste in pratica un solo individuo simile ad un altro e questo vale anche per i ragazzi con disabilità il cui “funzionamento”, come per tutti, dipende da molti fattori non solo dallo stato fisico. La disabilità non è la persona, un ragazzo con sindrome di down o autistica non è la sindrome stessa. Ho avuto molti ragazzi con sindrome down o autistici e tutti completamente diversi. Quello che invece serve è una maggiore dimestichezza con i diversi metodi e approcci di insegnamento (utilissimi con tutti gli studenti), inclusi strumenti e modalità di comunicazione per determinate tipologia di disabilità. D’altra parte noi siamo docenti, la scuola non è un ospedale né un centro diurno come qualcuno vorrebbe diventasse con l’insegnante specializzato trasformato in una specie di balia con l’unico compito di contenere la persona con disabilità. Noi siamo professionisti dell’apprendimento/insegnamento e tali dobbiamo rimanere, senza confonderci con altre figure che già intervengono, con ruolo diverso e non solo a scuola, nel Progetto di Vita dei ragazzi con disabilità (operatori socio sanitari, operatori per le disabilità sensoriali, ecc…).
Mi preoccupa poi la Sua intenzione di voler separare la carriera del docente specializzato da quella dei docenti curricolari, insistendo, ancora una volta, sul concetto della diversità e quindi della discriminazione andando in senso opposto rispetto all’inclusione. Perché?
Sembra che a qualcuno dia fastidio il fatto che alcuni docenti specializzati, dopo i cinque anni di ruolo su sostegno, possano passare ad insegnare la loro disciplina per la quale sono in possesso di regolare abilitazione, e allora? Dove sta il problema? Queste persone – super formate – rimangono sempre all’interno della scuola e Dio solo sa quanto bisogno c’è di personale formato tra i docenti curricolari. So che Lei ha in animo la formazione di tutti, ma mi consenta di aver qualche dubbio sulla sua realizzazione. È dal 1977 che aspettiamo la formazione dei docenti curricolari in tema di disabilità e nulla s’è fatto, stessa storia per quanto riguarda i Dsa e per tutti gli altri Bes, compresi i ragazzi con un quadro intellettivo limite, ai quali si è tolto l’insegnante di sostegno insieme alla certificazione (forse per ragioni di spesa?). Nulla si è fatto, tanto che, nel formare le classi, è prassi comune mettere il ragazzino con Dsa o altro Bes in classe con un compagno certificato in modo che ci sia il docente specializzato, l’unico formato, che li possa seguire. Magari ci fossero tanti docenti specializzati pronti ad insegnare la loro materia, ci sarebbero sicuramente più chance per l’inclusione. I ragazzi con disabilità potrebbero stare a scuola anche in assenza del docente di sostegno, sicuramente non farebbero da tappezzeria e non sarebbero condannati all’isolamento perché “diversi”, sottoposti a mobbing continuo nel silenzio e indifferenza di molti. La scuola, al contrario, si troverebbe con insegnanti formati e a costo zero, un jolly competente, una risorsa preziosa da poter “sfruttare” nella doppia veste di docente curricolare e di sostegno in previsione anche di un possibile organico funzionale. La scuola non ha bisogno di nuove figure dall’identità non ben definita, la cui utilità lascia il tempo che trova.
Non occorre rivoluzionare il sistema, alcuni spunti di riflessione ve li ho forniti. Soprattutto bisogna partire dai ragazzi, dai loro bisogni e diritti. Allora chiudete gli occhi immaginate di vederli e per un istante pensate che siano i vostri figli o nipoti, vedrete che la soluzione giusta arriverà.