Gentilissimo assessore alla pubblica istruzione dott.ssa Dorota Kusiak, ho letto sul giornale di oggi della sua scelta di comprare 385 crocefissi per dotare le aule delle scuole del comune di Ferrara.
Nella sua posizione, Lei ha legittimamente la possibilità di fare le sue scelte in accordo con l’amministrazione; io, nel mio piccolo di maestro elementare con ormai 40 anni di scuola, ho la possibilità di osservare inizialmente che questa sua decisione non mi sembra rappresentare una priorità rispetto ai diversi problemi che hanno le scuole ferraresi.
Molti possono pensare che la Sua sia una scelta ininfluente che non cambierà il modo di insegnare dei docenti; io penso invece che sia una scelta simbolica condizionante che non va nella direzione di una scuola accogliente ed inclusiva, di cui parla la normativa scolastica nazionale.
Essendo maestro elementare, amo la chiarezza e detesto l’ipocrisia per cui preferisco anticiparLe che non esporrò il crocefisso nell’aula che frequento insieme alla mia classe di bambini e bambine di scuola primaria.
Non lo farò indipendentemente dal mio credo religioso, dal mio bisogno di fede, dalla mia ricerca di spiritualità, dal mio orientamento politico; sono però consapevole che in molti vorranno leggere altro in queste mie parole per cui proverò ad essere chiaro.
Non esporrò il crocefisso semplicemente perché lavoro in una scuola pubblica e credo che il principio di laicità dello Stato debba essere applicato in tutti i contesti a partire dal rispetto dell’articolo 3 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.“
Non lo esporrò perché in Italia non esiste una religione di Stato pertanto reputo sbagliato esporre un simbolo religioso che può discriminare, a maggior ragione in questo periodo in cui viene fatto un uso appariscente dei simboli religiosi e poco consono ad una dimensione spirituale.
Non lo esporrò perché la dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica non è più «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica» nel nostro Paese.
Non lo esporrò, nonostante sia uno fra i simboli di identità storico-culturale, perché nella mia classe, come nella maggioranza delle classi italiane, ci sono bambini e bambine i cui genitori hanno scelto di avvalersi dell’insegnamento delle attività alternative alla religione cattolica.
Non lo esporrò perché preferisco che i muri delle aule che frequento siano pieni di disegni dei bambini e delle bambine, di loro fotografie, di loro progetti, di loro realizzazioni, di cartelloni, di tabelle con la ripartizioni dei ruoli, di calendari, di frasi importanti come ad esempio quelle riportate nei princìpi generali della nostra Costituzione.
Sono sicuro che, anche a causa di questa anticipazione, sarò accusato di fare politica a scuola; la prego di lasciarmi spiegare una differenza sostanziale in cui credo fortemente e che ho maturato in questi anni di scuola.
Io penso che gli insegnanti non debbano connotare il proprio ruolo educativo in classe con una visione “partitica” della realtà ma, proprio in quanto educatori, non possano fare a meno di fare politica in classe.
Se per politica intendiamo l’arte del governo a favore della “polis” o meglio se la intendiamo come una serie di tecniche relative all’organizzazione della vita pubblica, io credo che a scuola si faccia politica ogni volta che si sceglie come disporre i banchi, come spiegare un argomento, come organizzare il lavoro scolastico, come verificare gli elaborati e come valutarli, come intervenire in caso di difficoltà di apprendimento, come parlare con i bambini dei problemi di un loro compagno con disabilità, come affrontare un litigio, come comportarsi di fronte a qualche bambino che offende i compagni o che dice parolacce, come rispondere alle domande imbarazzanti, come motivare chi fatica ad apprendere, come aiutare chi è in difficoltà, come aumentare l’autostima degli alunni che si sentono sfiduciati, come risolvere un problema che li riguarda, come insegnare a mettersi dal punto di vista dell’altro, come far ragionare attorno ai pregiudizi e agli stereotipi, come risolvere un problema tutti insieme, come occuparsi dei “beni comuni”.
Fare politica a scuola non vuol dire educare a pensarla come l’insegnante ma aiutare i bambini e le bambine a ragionare con la propria testa, a pensare pensieri difficili, a credere nelle proprie possibilità, a riconoscere i propri limiti, a provare empatia, a litigare bene, a sperimentare che insieme si può imparare meglio e che solo insieme si possono risolvere i problemi comuni.
Il grande pedagogista Bruno Ciari, a cui ho contribuito ad intitolare la scuola in cui lavoro, scriveva che “le attitudine ed i valori etici, in quanto di natura pratica, non possono che derivare da un modo di operare e di vivere”.
Anche mettere in atto i valori della scuola della Costituzione vuol dire fare una scelta politica dunque anche la mia decisione di non esporre il crocefisso è di tipo politico e di nessun’altra natura.
Io credo che quello dell’insegnante sia un mestiere sempre più difficile in questo Paese che crede poco nelle intelligenze e nelle creatività dei suoi giovani ma mi rincuora sempre ricordare il messaggio del maestro di tutti noi maestri, Mario Lodi, quando scriveva che “davanti al maestro e alla maestra passa sempre il futuro. Non solo quello della scuola, ma quello di un intero Paese: che ha alla sua base un testo fondamentale e ricchissimo, la Costituzione, che può essere il primo strumento di lavoro.”
È proprio con questo riferimento alla nostra meravigliosa Costituzione, quale primo strumento di lavoro, che rifiuto il crocefisso con cui Lei doterà le scuole ferraresi e Le auguro un buon lavoro.
Mauro Presini
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