I lettori ci scrivono

Lettera aperta al ministro Lorenzo Fioramonti

Da un po’ di anni la scuola è diventata la bandiera di tutti i partiti, di tutti i governi ed è la pratica dimostrazione di ciò che si dice e non si fa. Le numerose promesse sono come una letterina di Natale e i pochi investimenti sono come un aperitivo allo scopo di guadagnare soltanto la benevolenza dei docenti.

Tuttavia, nella scuola è in atto una nuova linea di paziente attesa che chiama e sollecita il nuovo governo balneare ad affrontare nuovi esami di democrazia scolastica, ad arginare l’ondata di critiche e ad attuare un programma non convenzionale che metta bene a fuoco tutti i problemi della difficile realtà sociale e scolastica.

Molte affermazioni sono come un interminabile giro d’orizzonte e non c’è problema che non sia dichiarato prioritario. Si parla tanto di alta politica, di politica del fare, ma si fa poco o niente e il desiderio di cose nuove appare appagato da una serie interminabile di programmi, di diagnosi, di convegni, di vertici, di tavole rotonde ecc..

Nella società complessa, quotidianamente, affiorano nuove priorità e nuove sfide educative, ma la prima vera priorità e la prima vera sfida è quella dei tagli da fare al programma e alle promesse.

La grande pioggia di slogan fa male alla scuola perché crea le basi di una grande crisi di orientamento: puntare su una scuola di qualità, allegra e divertente (?), intervenire per migliorare la didattica, aumentare gli stipendi dei docenti, accrescere le capacità d’incontro, di dialogo, di scambio, di collaborazione, contrastare il precariato, lavorare per una convivenza pacifica e solidale, progettare la cittadinanza universale e l’interdipendenza globale…

Parole forti, parole belle, parole utili, parole che guardano lontano, ma che risuonano vuote e vane, semplici flatus vocis che non colgono più il bersaglio, bastano per accendere la fantasia, ma anche per spegnere la voglia di fare.

Di anno in anno le cose non cambiano che in peggio e la scuola continua a perdere velocità come un convoglio ferroviario in vista della stazione. Si predica bene, ma si va in senso contrario alla predicazione. Si parla tanto, a volte solo per il piacere di parlare, di formazione, di programmi, di centralità della scuola e dell’ educazione, ma le intenzioni più felici hanno spesso conseguenze infauste e le riforme diventano controriforme.

Nel fervore del fare e del proclamare si dimentica sistematicamente il grido d’allarme di una scuola e di una società che fanno fatica a riprendere il cammino verso la maturità, a porre alla ribalta insegnamenti e valori cui le nuove generazioni devono accedere anche attraverso l’ educazione.

Come la montagna ha bisogno dei boschi per vivere, così la società ha bisogno della scuola, oggi senza riparo nella tempesta, per cambiare la mentalità permissiva dominante proiettata verso lo svuotamento di ogni ideale, per arginare la resa educativa dei genitori, la rassegnazione davanti al richiamo dei divertimenti vuoti e senza senso, per contrastare il potere magico dei nuovi media che impediscono ai giovani di guardare in alto, di andare al di là dell’inerzia del presente, di compiere un’opzione fondamentale in grado di mettere in moto un processo di riflessione sulla propria esistenza, di rivedere i pensieri, le idee e i modi di agire abituali non sempre animati da un’attenzione cosciente al come e al perché agiamo.

Nulla è più adatto della scuola a dare un’idea del parlare senza avvertire, del descrivere senza perseguire, del riformare senza investire. Che paradossi, che stridenti contrasti!

La scuola ha un esercito di educatori straordinario, ma manca di una precipua concezione antropologica strettamente associata ai valori etico-civili, è megafono di un messaggio che non arriva, mero strumento di produzione, centro di benessere e quasi mai sorgente di cultura, di vita e di valori, costruttrice di eticità e di storicità, edificatrice di libertà e di civiltà.

Ogni politico, vicino ai sistemi di potere, ma lontano dalle aule scolastiche, dovrebbe anzitutto avere le idee chiare, dialogare con i docenti, con i ragazzi, con le famiglie, guardare in faccia tutta la realtà, ed avere il coraggio di intensificare gli sforzi, non per un calcolo elettorale, ma per una scuola sempre più efficace nelle sue procedure e nelle sue differenziazioni e veramente capace di mediare, di ascoltare le ragioni di alunni e genitori, di fare da filtro, di commentare, di obiettare, di essere non passacarte, voce spezzata, ma tramite tra le molte attese.

La vera sfida è quella di creare, all’interno del sistema scolastico, spazi di libertà, di discrezionalità, di creatività, di giustificazione ontologica piena e completa.

L’educazione è per sua essenza intimamente legata al concetto di persona e, per questo, deve aiutare a comprendere, ad amare, a sperimentare l’humanum, la natura, la libertà, il progresso.

La scuola è tanto più vera e autentica, quanto più si avvicina ad una integralità, ad una dialettica che tenga conto dell’uomo in tutte le sue dimensioni.

Il suo carattere umanitario la assimila, pertanto, ad un orizzonte reale e ideale che dobbiamo cercare di perseguire nel più alto grado possibile, secondo la misura delle nostre risorse, delle nostre forze, delle nostre disponibilità.

Il rude ed incolto conformismo sociale dei nostri giorni e della nostra civiltà impone di tracciare il progetto di una scuola che superi il ripiegamento su se stessa, approfondisca sempre meglio dal punto di vista conoscitivo ed educativo, norme di comportamento e rafforzi l’humanum che è in ciascuno di noi.

La scuola, dunque, non può appiattirsi nella tecnica molle e scivolosa di ideologie, di proclami, di promesse, dimenticando quella realizzazione dell’humanum che costituisce il suo significato finale ed essenziale, ma deve essere animata, alimentata e guidata da una didattica e da una politica vivente, dallo sforzo di trovare una sintesi armonica, perennemente destinata a rinnovarsi nelle situazioni cangianti e nel corso incessante della vita e della storia dell’uomo.

“Ad impossibilia nemo tenetur” (Nessuno è tenuto alle cose impossibili) direbbero i giuristi, ma la politica è l’arte del possibile anche se non sempre fa tutto il possibile.

Fernando Mazzeo

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