Cara ministra,
sono una docente di Italiano in un Istituto d’Istruzione Professionale. Le scrivo per raccontarle questi giorni. Ma le scrivo, anche, per porle una domanda.
Qui in Lombardia, a Varese, siamo a casa da lunedì 24 febbraio.
“Fare qualcosa” è stato immediato: il contatto con i ragazzi non si è mai interrotto e abbiamo così potuto rispondere alle loro domande, ai dubbi e timori, anche solo rimandando la risposta “a quando avremo indicazioni ministeriali”.
In ogni caso, nei primi giorni di chiusura mi sono occupata di contattare gli studenti e avviare le piattaforme. Ho cercato i miei studenti “casa per casa”, li ho stanati uno ad uno, anche i più pigri, anche i più svogliati. Anziché disperarmi sul fatto che avrebbero potuto copiare, ho ritarato con entusiasmo la programmazione canonica.
Ho pensato a dei lavori che potessero fare di questo tempo un buon tempo per i miei alunni e che sollecitassero, fra l’altro, le tanto invocate competenze digitali che, proprio in questi giorni, mi accorgo spesso mancare nei cosiddetti “nativi digitali”. Per esempio, una classe, passata alle cronache del mio Istituto per casi di cyberbullismo, sta lavorando ora su Instagram, dove pubblica storie e racconti, imparando a scrivere e ad usare con più efficacia i social. Un’altra, invece, sta realizzando dei video sull’inferno dantesco rivisitato in versione 2.0 e gli studenti, trasformati in odierni Dante, applicano il contrappasso nei confronti di femminicidi, bulli, violatori di quarantena e altri peccati contemporanei.
Ma insegnare non si esaurisce nelle 18 ore di classe, come lei ben sa. E a continuare in questi giorni difficili non è stata solo l’attività didattica, ma anche quella ad essa collegata.
Ho fatto formazione online, quella obbligatoria e quella volontaria. Ho coordinato la mia classe. Ho redatto un Piano Didattico Personalizzato e l’ho fatto approvare al consiglio. Ho gestito a distanza casi di cyberbullismo, di false identità e di “video-bigiate”. Ho passato ore al telefono con colleghi per condividere metodi e procedure. Ho svolto riunioni collegiali, ricalibrando la programmazione approvata a novembre e modificando le griglie di valutazione.
Ancora. Con una collega abbiamo deciso di portare avanti un progetto che amiamo molto, il Quotidiano in Classe, selezionando articoli, postandoli nelle piattaforme per la didattica a distanza e continuando a commentarli in animati video-dibattiti. Perché mai come ora gli studenti ci chiedono di capire l’attualità, l’informazione e, anche, di combattere insieme le fake news.
Ancora. Con le colleghe responsabili della biblioteca siamo poi attente a tutti gli “omaggi solidali” degli editori, per ampliare la nostra collezione di e-book, perché, come sa, i fondi per la biblioteca sono scarsi. Ancora. Sto continuando l’orientamento con alcuni ragazzi di quinta che, se erano “disorientati” prima circa il loro futuro, possiamo immaginare quanto lo siano adesso.
E questo, tutto sommato è il mio lavoro. Ma non ho, non abbiamo, fatto solo questo.
Io sto mantenendo contatti con alcune famiglie, aiutandoli a risolvere problematiche quotidiane di natura economica, tecnologica o sociale.
Ho cercato anche in questo momento di far sì che nessuno dei miei studenti restasse escluso.
Escluso per digital divide, per ragione di salute, per ragioni economiche, familiari o quant’altro. Motivi di esclusione che questi giorni non fanno che ampliare e amplificare.
Questo possiamo offrire, noi docenti: tenere “impegnati” i ragazzi, continuare con loro un dialogo educativo, sostenerli, provare a farli uscire da questo periodo non ulteriormente impoveriti, già lo saranno economicamente e socialmente, immaginiamo se lo fossero anche emotivamente e culturalmente. In fondo è davvero solo questo ciò che possiamo e dobbiamo fare: provare a non far loro vivere da soli e senza strumenti un fenomeno di tale portata storica.
Sono stata, Ministro, nel mio piccolo, amministratore locale e il fatto che le logiche amministrative e politiche seguano percorsi spesso lontani dalla pratica quotidiana, mi è noto. È giusto così.
Immagino sia costretta (meglio tardi che mai, la nostra regione ha perso almeno già sei settimane di lezione sulle trentatré annue) a rendere obbligatoria per decreto l’attività a distanza, per quei pochi che si sono imboscati. E fa bene, anche se chi voleva lavorare ha iniziato da subito, senza attendere le indicazioni del Ministero, assumendosene la responsabilità.
Ma Le chiedo: che valore sta dando Lei a questo lavoro, al lavoro dei tanti docenti che con naturalezza hanno scelto di lavorare e continuare il dialogo educativo, decretando oggi il “tutti promossi”?
Il lavoro che ho e abbiamo fatto finora mi e ci consente di avere strumenti di valutazione dei ragazzi, persino di valorizzarne le qualità emerse in questo periodo o di aiutare chi è rimasto indietro.
Che immagine ha e dà di noi al paese? Sanguinari assetati di bocciatura in un anno come questo? E se proprio il Ministero temeva bocciature e ricorsi, timore poco plausibile e comunque situazione da evitare, non poteva procedere con una circolare più avanti (come del resto si fece lo scorso anno con circolare di fine maggio per i primi anni degli Istituti Professionali), lasciando che questo tempo fosse un buon tempo, in cui gli studenti si affidavano ai loro docenti con fiducia, rispetto ed impegno?
Mi dica: quale credibilità professionale e culturale mi lascia lei oggi, agli occhi dei miei alunni e delle loro famiglie?
E ancora, da un punto di vista educativo, quale insegnamento offre ai suoi studenti? Con questa scelta antieducativa e deresponsabilizzante (deresponsabilizza tutti: docenti ed alunni), non fa poi che approfondire il solco, ormai profondo, che separa famiglie e scuola.
Ancora una volta, Ministro, il suo Ministero (come quelli passati del resto) ha mortificato la nostra professionalità, squalificandola e impoverendola, non solo, come è noto, economicamente e contrattualmente. Oggi lo fa anche culturalmente, privandomi del mio ruolo che prevede anche il valutare, valorizzando o rimandando.
Ma forse è un tempo in cui dobbiamo per decreto dire che andrà tutto bene, anche se non va bene per niente.
Annachiara Cavallone