I lettori ci scrivono

Lettera aperta alla scuola

Care maestre, Gent.ma Dirigente,

ho atteso fino al 4 maggio per scrivervi sperando di non dover impugnare la penna.

Ho atteso, da parte dello Stato, parole di attenzione sulla scuola e sul fondamentale compito che essa svolge, sul suo essere “luogo” pubblico e gratuito di scambio di conoscenza, esperienza e condivisione.

Ho atteso parole di attenzione sul ruolo delle famiglie e, in particolare, delle madri, dato che ho avuto la fortuna di esserlo. Siamo educatori ma il diritto all’istruzione non si esercita senza di voi. Non ho competenze ed esperienze da insegnante e l’improvvisazione non è mai foriera di buoni risultati.

Ho atteso programmi, iniziative che guardassero al futuro della scuola (quello prossimo da maggio a settembre e quello, che velocemente si avvicina, da settembre in poi). Ho atteso investimenti sulle strutture, sul personale, idee nuove.

Ho atteso attenzione spasmodica e preoccupazione viva per i bambini e le bambine in condizione di marginalità, perché soli (senza genitori, con genitori in crisi, con genitori con gravi carenze educative), perché privi di mezzi (di libri, di spazi, di strumenti informatici), perché con disabilità incompatibili con l’insegnamento “a distanza”….

Ho atteso. Invano.

E ho, pertanto, deciso che avendo il paese preso la FOLLE risoluzione di lasciare l’art. 34 cost. lettera morta, non avrei più dedicato tempo ed energie nel sostenere tale scellerata scelta.

Ho deciso di dedicarmi – nel tempo che divido con il necessario svolgimento dei miei compiti di lavoratrice (posizione anch’essa ignorata dallo Stato) – all’educazione di mio figlio (scuola primaria) e mia figlia (scuola dell’infanzia).

Un’educazione che garantisca la socialità da svolgersi in spazi prevalentemente aperti, l’esposizione minima a tablet e pc, un’ampia e ricca scelta di libri con cui studiare.

Non potrò – senza di voi – garantire l’istruzione. Farò quello che posso. Lo Stato, il mio, ha deciso di lasciare alle famiglie (e, soprattutto, data l’arretratezza del contesto sociale, alle madri) ogni responsabilità spogliandosi dei suoi doveri nei confronti dei minori fragili.

Appena mi sarà consentito sarà mia premura dare il mio sostegno alle famiglie perché si possa garantire (più di prima) il diritto di chi ha meno voce.

Certamente non vi sfugge che già prima del lockdown c’erano bambini in difficoltà. Non bastava loro la didattica a scuola. Avevano accesso (tra mille difficoltà) a servizi gratuiti di doposcuola o altro supporto assistenziale. Non bastava ieri ma oggi, con la DAD, nonostante il vostro impegno e la vostra passione, questi bambini e queste bambine sono gravemente lesi nei loro diritti, incapaci anche di chiederne l’attuazione. Non basta un pc o un tablet in comodato. Non basta chiamare al sacrificio le famiglie. Da soli, senza la comunità educante, non potevano e non possono farcela. Non possiamo farcela.

Ho un figlio e una figlia. Devo pensare a loro e, quindi, al contesto in cui cresceranno e vivranno.

Per questo, mi impegnerò, più che posso, perché anche in Italia sia garantito il diritto all’istruzione e il diritto dei bambini e delle bambine di oggi di essere domani, se vorranno, genitori con un adeguato sistema di welfare.

Lo devo a mia figlia. Non voglio che debba scegliere – come sono costrette a fare la maggior parte delle donne – tra la realizzazione dei propri talenti e l’amore per i suoi figli. Non voglio, altresì, che su mio figlio pesi solo il compito di “portare il pane a casa”, non voglio che perda l’occasione di compiere l’essenziale mestiere di padre che in Italia è considerato un lusso per pochi.

Dal 4 maggio – mi dice il governo – devo, dobbiamo tornare al lavoro. I dipendenti possono prendere 15 gg di permesso. Gli altri 15 si organizzino come credono. Se il loro reddito non gli consente di sopravvivere al 50% dello stipendio…trovino loro una soluzione, se ne assumano la responsabilità. Se il bonus baby-sitter non basta o non è accessibile, si battano il petto per la colpa grave di essere nati poveri in Italia. Se non hanno una rete familiare/sociale solida si sentano genitori inadatti, irresponsabili, non amorevoli.

Di fronte a questo trattamento uguale per diseguali, di fronte alla leggerezza con la quale abbiamo deciso di esporre anche i più piccoli ai “video” (si legga a riguardo Manfred Spitzer, DEMENZA DIGITALE. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi; o Maryanne Wolfe, Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale), ho deciso di usare le mie risorse economiche per insegnare a mio figlio e mia figlia le lingue straniere affinché possano (anche) andar via. In paesi dove sia riconosciuto – davvero – il diritto di svolgere la propria personalità (art. 2) e lo Stato prenda sul serio il dovere di “eliminare gli ostacoli di fatto” all’uguaglianza (art. 3 cost).

Spero che siate accanto a me nella richiesta di strategie per la scuola che vadano oltre la DAD (i cui limiti sono evidenti, nonostante i vostri sforzi, soprattutto per i più piccoli). Spero che abbiate l’urgenza di immaginare e costruire, da ora, perché sia operativa almeno a settembre, una scuola sicura e accessibile a tutte le bambine e a tutti i bambini.

È oggi il giorno per costruire il domani.

Un domani dove la scuola esista e non sia un piccolo schermo da guardare in solitudine.

Le energie e le intelligenze del corpo docenti e dei dirigenti scolastici dovrebbero essere impiegate per immaginare e sperimentare, da ora, un diverso modo di fare scuola e per chiedere, anzi pretendere gli investimenti necessari per mettere in sicurezza le strutture e ampliare gli organici.

Nessuno esclude che il covid o altri virus tornino a chiedere “distanze” di sicurezza e, ad oggi, la scuola non è strutturata per rispondere.

Si parla di campi estivi per i bambini ma non di scuola.

Di bar che utilizzino i marciapiedi ma non di scuola.

Di spiagge a distanza di sicurezza ma non di scuola.

Ed è il vostro silenzio ad aiutare la “disattenzione” dei decisori.

Piccoli gruppi, spazi aperti (quelli della scuola e quelli della città), collaborazione con il terzo settore, per cominciare. E poi un ripensamento generale degli spazi per l’apprendimento, a partire da quelli eventualmente poco utilizzati delle scuole per arrivare a quelli di ciascun Comune o di privati convenzionati. Lo propongono in tanti. Lo stanno sperimentando altri paesi. Noi no.

Certo alcune idee richiedono investimenti, ma ogni euro speso per l’istruzione ha un ritorno incalcolabile.

A questo sono disposta a collaborare.

La “scuola” chiusi in camera davanti ad uno schermo no. Non è scuola. È durata fin troppo.

E per me, per il bene dei miei figli, finisce qui.

In ogni caso, buon lavoro e grazie per l’impegno profuso.

Loretta Moramarco

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