Quando decisi di impiegare la mia laurea in lettere pre-riforma nell’istruzione secondaria, in risposta a una pressante esigenza nazionale, l’avevo già impiegata nel marketing di società commerciali fino all’invito a “rottamarne” i dipendenti dai quarant’anni in su. Tornai dunque sui banchi dell’università per avere quei 24 CFU (crediti formativi universitari) richiesti agli insegnanti del futuro, garanzia di competenze invero utili per sensibilizzare alla “costruzione” di una società migliore. Ne derivò uno stimolante aggiornamento pur costoso.
La riforma del 2015 nota come “buona scuola” ne copriva il costo agli insegnanti in ruolo (ma l’aggiornamento restava extra-lavorativo). A totale carico era invece la spesa per chi aspirava a insegnare: quattrocento euro di base. Ineludibili, se consideriamo che i “24 CFU” già erano pre-requisito del concorso ordinario. Alcune università, fiutando l’affare, approntarono master al costo di duemilasettanta euro. Un esborso superiore spettava invece a chi ambiva a un ruolo richiestissimo: l’insegnante di sostegno. Tremila euro era il valore del corso di specializzazione – e centocinquanta quello della preselezione – tutto al netto di tempo e testi.
Ma c’era – in ogni caso – un se: che l’originario piano di studi combaciasse con “classi di concorso” aggiornate e descritte in un decreto ministeriale del 2017, ma “dettagliate” solo nell’ultimo degli allegati di un decreto presidenziale di poco anteriore, che – proprio in quei dettagli –invalidava buona parte delle lauree magistrali di vecchio ordinamento. Chi dunque aveva deciso di intraprendere questo impegnativo percorso di aggiornamento doveva fare necessariamente i conti con la correzione del suo piano di studi. Costo: trecentosessanta euro per l’aggiornamento o integrazione di ogni disciplina. E se basta una guerra per cambiare i confini della geografia, una riforma può cambiarne la definizione dell’insegnamento invalidando il precedente.
Se a distanza di qualche anno si continua a parlare di “merito” degli insegnanti, un demerito va a chi, ampliando a dismisura la gamma degli insegnamenti universitari, ne cancellava altri, talvolta irrecuperabilmente, mettendo in piedi un business ai danni di una categoria già mal retribuita. E un danno all’intera collettività si deve all’effetto dell’ennesima “stratificazione” di leggi parallela all’avvicendarsi di legislature di durata troppo breve per concepire una riforma, trasformarla in decreto e implementarla.
Insomma, solo un logaritmo può fare di peggio. Il tutto per poi dover riferire sulle materie “integrate” a caro prezzo in un concorso per (un considerevole numero di) esami – su un programma che comprende buona parte dello scibile – per diventare facile bersaglio di genitori che, se una volta affidavano agli insegnanti l’istruzione dei loro figli, ora ne delegano la stessa buona educazione.
Antonio Facchin
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