Uno studente di un liceo classico milanese ha scritto una lunga lettera-sfogo indirizzata alle scuole, alle istituzioni e alle forze politiche del Paese. Il documento è stato pubblicato dal Corriere della Sera.
Ecco la lettera integrale.
Sono un neo maturato di un liceo classico milanese e, a distanza di un mese dalla riapertura delle scuole, ci tenevo a scrivere una lettera dove poter condividere alcune riflessioni sui cinque anni di scuola che ho passato e, in base a queste, sul sistema scolastico italiano in generale.
Il primo pensiero che mi è venuto in mente di fronte a tutte le persone che mi aspettavano fuori dall’aula della prova orale, è stato: «Ne è valsa la pena?», «È così che immaginavo mi sarei sentito?», «Mi sento ripagato di questi anni?». Purtroppo, dopo averci riflettuto per non poche settimane, la risposta è che tutto ciò che ho sentito, o che mi rimane, è solo un grande vuoto; un vuoto di cui ritengo pienamente responsabili questi anni di scuola.
Quando iniziamo il primo anno delle superiori, lo facciamo sapendo che lì non impareremo solo ciò che di specifico ogni indirizzo ha da offrire, ma anche cosa significa davvero essere adulti: vale a dire rendersi conto che in questo mondo non si è soli e che bisogna prendersi le proprie responsabilità, capendo come rapportarsi con gli altri e come vivere all’interno di una società.
Ebbene, in una scuola sempre più dilaniata dalla retorica del merito, della performance e dell’eccellenza, non ho visto niente di tutto questo. Al contrario, ho visto una generazione, quella del Covid, che per soddisfare aspettative e canoni sempre meno realistici sta rischiando il completo annullamento: ciò che conta è il risultato, non il percorso, quello che sei è il voto, non la tua crescita e le tue esperienze, l’importante è andare avanti a denti stretti e non fermarsi mai, almeno fino a quando non raggiungi il burnout: le relazioni sociali, gli hobby, le proprie passioni vengono tutte dopo.
Sapete di fronte a cosa ci siamo trovati in questi anni, quando la preoccupazione degli «adulti» non era come stessero i loro figli, ma quale fosse la più grossa sparata settimanale della politica? Ci siamo trovati nei bagni a piangere, a vomitare per l’ansia, a mordere un pezzo di stoffa per non fare rumore mentre avevamo gli attacchi di panico; ci siamo trovati alle tre di notte ad assumere bevande energetiche per non addormentarci, per continuare a studiare, a fare di meglio, a essere migliori degli altri; ci siamo trovati la mattina a rubare i calmanti dei nostri genitori per trovare il coraggio di andarci… a scuola; ci siamo trovati in lacrime, davanti allo specchio, provando a far finta di sorridere e dire che andasse tutto bene: io e molti altri studenti d’Italia.
Quello che ci è stato insegnato è che, nella vita, non è importante essere rispettosi con gli altri, aiutare chi è in difficoltà o essere gentili con chi ci sta parlando, ma pensare solo a noi stessi, umiliare il prossimo e scavalcarlo per raggiungere i propri obiettivi. Lo abbiamo imparato proprio a scuola: un posto, dove, come ho già detto, vengono considerati solo aspetti come la media scolastica, i voti, i risultati che hai ottenuto o le tue certificazioni; non la persona che si è.
Del resto lo dicono anche agli open day: se i vostri figli sono impegnati in altre attività extra scolastiche che richiedano più di due ore a settimana, la porta è là in fondo.
E così una generazione intera è stata piegata al nome del risultato, del numero, della prestazione: migliaia di ragazze e di ragazzi annullati da un sistema che non si cura delle specificità e delle qualità personali di ognuno di loro, ma delle statistiche e delle graduatorie in cui possono essere racchiusi.
Dopo cinque anni dove sono stati questi gli insegnamenti datimi, in cui era considerato non solo normale ma perfino giusto umiliare e far piangere i propri studenti, per delle aspettative che non gli si chiede ma gli si ordina di rispettare, capitemi quando dico che non sono soddisfatto di questo percorso.
Dire che se ne esca temprati e che da ora sapremo come stare al mondo vale fino a una certa, perché non credo che la scuola pubblica sia stata creata per insegnare che nella vita bisogna essere insensibili, che dobbiamo accettare di avere le crisi nervose per la pressione troppo alta, che se non raggiungiamo un certo standard allora siamo un fallimento e che va data più importanza al risultato, non alla salute mentale o alla nostra felicità.
Ora, sia chiaro, io non accuso nessuno in particolare, non i corpi docenti delle scuole, né i presidi che si occupano della loro organizzazione, tantomeno l’attuale governo: io accuso un sistema in toto, quello della scuola italiana, che, a dispetto della formazione che mi possa dare o meno, non sta insegnando la cosa più importante che vada insegnata, e cioè che fallire è normale, che sbagliare è normale e che dedicare tempo a se stessi, costruendo la persona che si vuole essere, dovrebbe essere la priorità, non «il resto che viene dopo». Quale insegnamento ci sarà utile, se nei cinque anni più formativi della nostra vita non avremo avuto nemmeno il tempo di formare la nostra persona?
Abbiamo gridato, abbiamo protestato, abbiamo visto i nostri coetanei cadere in depressione, farsi del male, non essere più i ragazzi e le ragazze che conoscevamo o perfino togliersi la vita, e non ci viene dato nemmeno lo psicologo a scuola, venendo criticati come scansafatiche, giovani deviati che non pensano ad altro che divertirsi: io non lo accetto, non lo posso accettare, perché in un sistema del genere, in un mondo di questo tipo gli scansafatiche di cui si parla sono quelli che girano lo sguardo dall’altra parte e che alla richiesta di una scuola dove si possa andare senza timore, non dicono nulla.
Non so che cosa voglio ottenere scrivendo questa lettera, forse voglio solo sfogarmi e provare a esprimere, almeno in parte, quello che sento, quello che penso: vorrei che non fosse un fuoco di paglia, ecco, vorrei che la gente si interrogasse seriamente sul modello di scuola che desideriamo e quindi sul modello di società a cui aspiriamo, perché è dalla scuola che parte tutto, che si pongono le basi del paese in cui vivremo.
Tra un mese riprenderanno le lezioni per centinaia di migliaia di studenti, studenti che non rimarranno per sempre tali e che un giorno saranno i nuovi adulti: chiediamoci davvero quale sia l’insegnamento che gli vogliamo dare, perché sarà su quello che si baseranno quando dovranno fare delle scelte, quando dovranno decidere come condurre la propria vita e comportarsi nei confronti degli altri.
Pertanto, adesso, vorrei fare un appello non solo al governo ma a tutte le forze politiche del Paese, chiedendo loro di ragionare seriamente su che tipo di scuola si vuole costruire e su che modello basare l’insegnamento da dare ai prossimi studenti; facendolo con gli studenti, non senza. È da questo ragionamento che scegliamo in che Paese vivere e che società avere: sarebbe un peccato non farlo e non dargli la considerazione che, difatti, non gli viene ancora data.
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