Regionalizzazione: sì o no? Gli studenti migliori dell’ultimo anno di Scuola Superiore si pongono questo interrogativo e, in vista dell’esame di Stato, chiedono lumi ai docenti. Molti dei quali il 27 febbraio scorso hanno aderito allo sciopero, proclamato dal sindacato Unicobas Scuola & Università (cui ha partecipato anche Anief) proprio contro la regionalizzazione della Scuola. Il dibattito non può non riguardare i docenti, i quali saranno la categoria di lavoratori maggiormente colpiti dalla riforma, perché perderanno persino gli scatti di anzianità (non presenti nei contratti regionali).
Alla base dello scontro c’è in realtà la contrapposizione tra due opposte concezioni dell’economia (e quindi dello Stato stesso). Può essere utile, come abbiamo già visto in precedenti articoli, spiegare agli studenti questa dicotomia attraverso lo studio di quanto accaduto 90 anni fa nei ricchissimi Stati Uniti.
Secondo la concezione liberista (oggi, come allora, predominante), lo Stato deve sempre più ritirarsi dal controllo delle dinamiche economiche per “lasciar fare” al “libero” mercato: di conseguenza non è compito dello Stato nemmeno occuparsi di perequare le differenze tra zone ricche e zone povere del proprio territorio mediante politiche fiscali che drenino risorse dai territori più opulenti a quelli più depauperati. In linea con questa ideologia, la Lega vuole un sistema fiscale in cui il 90% del gettito fiscale di una regione venga investito nella regione stessa: così da rendere sempre più ricche le regioni già ricche, abbandonando al loro destino le regioni più bisognose (anche e soprattutto per quanto riguarda sanità e istruzione). Così imparano. Anche a costo di balcanizzare l’Italia. Ma siamo certi che abbandonare a se stesse le regioni già povere non trascini il Paese intero nel caos?
Abbiamo già visto come i dogmi liberisti, negli USA degli anni ’20, prepararono il terreno per il tracollo dell’economia.
E venne il “black Thursday”: il 24 ottobre 1929. Quel giorno, inaspettatamente, le quotazioni di moltissime azioni cominciarono a calare. E fu il panico. Milioni di azioni venivano vendute in massa, a prezzi stracciati che scendevano vertiginosamente. La china sembrava improvvisamente non conoscere fine. Piccoli e grandi investitori si trovarono completamente rovinati in meno di mezza giornata, perdendo i risparmi di una vita.
Ma la rovina non si fermò qui. Nei giorni, nelle settimane, nei mesi seguenti crollò la produzione manifatturiera, perché il disastro finanziario aveva poco prima fatto crollare i consumi. Di conseguenza migliaia di lavoratori si ritrovarono disoccupati. Ciò provocò un circolo vizioso velocissimo, simile all’avvitamento di un aeroplano in picchiata.
Tutto il mondo toccò con mano quanto illusoria fosse la mitologia liberista. Il Cile, che negli Stati Uniti esportava rame in enormi quantità, fu danneggiato in modo irreparabile; e il disastro investì tutti gli altri Paesi da cui gli Stati Uniti importavano materie prime e prodotti finiti, con un effetto domino che coinvolse poco a poco l’intero pianeta.
Il Presidente Hoover riuscì far poco o niente per fronteggiare la catastrofe. Nessuna delle ricette economiche messe in campo ebbe effetti maggiori di un blando palliativo. Soltanto dopo due anni di impoverimento generalizzato Hoover si decise a prendere decisioni eterodosse rispetto al dogma del “laissez faire, laissez passer” liberista, in voga dal XVIII secolo: fece intervenire lo Stato, stanziando somme di denaro pubblico a favore della produzione manifatturiera, ed istituendo un ente pubblico per prestare denaro alle banche in sofferenza.
Ciò non fu però sufficiente. L’economia non ripartì, nonostante la boccata d’ossigeno di cui le strutture finanziarie poterono momentaneamente fruire. Le banche che fallivano si contavano a migliaia, a causa del mancato recupero dei crediti da esse elargiti a risparmiatori sempre più spiantati. Quasi tutte le industrie andavano in fallimento, gettando in miseria grandi masse di lavoratori. Un quinto della popolazione si ritrovò disoccupato. Ovunque era disperazione e sgomento.
La produzione industriale si dimezzò, letteralmente. Quindici milioni di lavoratori furono messi sul lastrico, senza uno straccio di lavoro. 5.000 banche chiusero i battenti.
In questa situazione Franklin Delano Roosevelt venne eletto presidente degli Stati Uniti l’8 novembre 1932 con più del 57% dei voti. Nel corso della campagna elettorale aveva lanciato l’idea del “New Deal”: un “nuovo accordo”, un “nuovo corso”, un “nuovo indirizzo”; o forse, più propriamente, un “nuovo contratto” sociale. Così si espresse nel luglio 1932: «Dovunque nella nazione uomini e donne, dimenticati dalla filosofia politica del nostro governo, ci guardano in attesa di guida e di opportunità per ricevere una più equa distribuzione della ricchezza nazionale. Io mi impegno sancire un nuovo patto [new deal, appunto] col popolo americano. Questa è più di una campagna elettorale: è una chiamata alle armi». Roosevelt e i suoi collaboratori (ironicamente definiti “newdealers” dall’opposizione) sarebbero poi ricorsi spesso, nei loro discorsi, alla metafora della guerra contro l’ingiustizia sociale e contro la povertà dovute all’iniqua distribuzione della ricchezza.
Eletto Presidente, nel discorso inaugurale della propria presidenza (4 marzo 1933) pronunciò le celebri parole secondo le quali «Se c’è qualcosa di cui aver paura è la paura stessa». Ed aggiunse che avrebbe chiesto al Congresso un grande potere: «Un potere grande come quello che mi verrebbe conferito se fossimo invasi da un esercito straniero».
Quel giorno il panico aveva raggiunto livelli tali che quasi tutti gli Stati avevano ordinato la chiusura sine die delle banche per impedire che l’intero sistema bancario collassasse. Nessuno era più certo di poter trovare i soldi per sopravvivere.
La mancanza assoluta di misure perequative per salvaguardare i ceti più deboli aveva trascinato la nazione più ricca e potente della Terra in una catastrofe economica mai vista prima, e difficilmente immaginabile da chi fideisticamente aveva giurato sulla veridicità dei dogmi liberisti.
In un prossimo articolo vedremo quali misure furono prese da F.D. Roosevelt per invertire la rotta e salvare il Paese.
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