Parlando di educazione civica, cittadinanza e Costituzione con gli studenti dell’ultimo anno dei Licei in vista dell’esame di Stato, ci si imbatte nei grandi temi di politica economica: le possibili vie d’uscita dalla lunghissima crisi che tiene in ostaggio l’Italia, le scelte del Governo attuale e di quelli precedenti. E si parla di imposizione fiscale, di flat tax, di affidabilità ed equanimità delle istituzioni; del ruolo delle parti sociali e dei sindacati nell’equa ripartizione del reddito nazionale; di statalismo, di neoliberismo, di assistenzialismo; di lotta alla disoccupazione e dei mezzi per praticarla; di sicurezza sociale, di pensione, di reddito minimo assicurato ai più deboli.
Una domanda che i ragazzi più acuti pongono ai propri insegnanti è: lo Stato è solo un ente che garantisce il diritto positivo? Deve soltanto tutelare la proprietà privata e la ricchezza (dei pochi fortunati che ne sono proprietari), lasciando tutto il resto al “libero” mercato? O deve riconoscere e garantire a tutti i cittadini i diritti fondamentali (civili, politici, sociali, all’istruzione, alla sanità, all’uguaglianza di opportunità, alla sicurezza personale)?
Ci siamo già occupati in precedenti articoli della politica intrapresa da F.D. Roosevelt per far uscire gli USA dalla crisi del ’29. Tra il 1935 ed il 1936 il Presidente dovette scontrarsi duramente con la Corte Suprema, composta da giudici — nominati dai precedenti Presidenti repubblicani — che tentarono di fermare i provvedimenti del new deal dichiarandoli incostituzionali. Roosevelt però ebbe dalla sua parte i sindacati autentici e combattivi, che il new deal aveva protetto (mentre fino quel momento essi erano stati sempre visti dalle classi dirigenti come nemici). Nel 1935 era stato istituito il CIO (Committee for Industrial Organization), unione di ben 55 sindacati, che sostenne con grande forza la politica di Roosevelt. E così il grande riformatore riuscì a spuntarla, dimostrando all’opinione pubblica che i nove giudici della Corte Suprema rappresentavano gli interessi delle classi più ricche (cui essi appartenevano), pronte a tutto pur di impedire la ridistribuzione della ricchezza.
Le opposizioni dissero e scrissero di tutto contro Roosevelt: l’abbondanza di sigle — con cui erano indicati i provvedimenti e gli organismi — fu sarcasticamente soprannominata “zuppa alfabetica”. Arrivarono a dare al Presidente del fascista, o del comunista, secondo il momento e la convenienza. La sostanza delle accuse era incentrata sul dirigismo statalista e sull’”assistenzialismo“, i quali (a sentir loro) tarpavano le ali alla libera iniziativa.
Gli straricchi in realtà non volevano ingoiare un boccone per loro molto amaro: e cioè il fatto che parte della ricchezza dello Stato, finanziata con le tasse pagate anche da loro, sarebbe stata da quel momento in poi usata per il benessere comune; ossia per creare le basi di quello che sarebbe poi passato alla storia come welfare state, cioè un sistema economico tale da far sì che lo Stato assicurasse tutti i cittadini la certezza dei diritti fondamentali. Anche sulla base di questi principi sarebbe poi stata pensata la Costituzione italiana antifascista del 1948.
La settimana lavorativa venne portata 40 ore: limitando il numero di ore lavorative, si aumentò sensibilmente l’occupazione e la qualità dei prodotti, nonché la qualità della vita dei cittadini e, quindi, della società nel suo complesso. Fu stabilito che i salari non dovessero essere inferiori a livelli minimi prefissati per legge: aumentando così il potere d’acquisto di milioni di persone, e rilanciando la domanda interna. La legislazione sulla sicurezza sociale assicurò la pensione di vecchiaia alla maggior parte dei lavoratori. Nessun anziano doveva più morire per strada senza una casa e un’assistenza minima, e così nessun disoccupato. Una legge fornì anzi direttamente nutrimento, soldi e vestiti a quel quarto di cittadini americani che erano rimasti senza lavoro.
A noi oggi questo sembra il minimo per una società civile: nella opulenta America di allora, però, non lo era affatto (e, se non vigiliamo, potrebbe non esserlo nemmeno nel futuro prossimo, in America come in Europa). Lo Stato cessava di essere solamente il garante dell’ordine sociale e dei profitti dei miliardari: diventava invece regolatore dell’economia, e ciò si rivelò vantaggioso per tutti, perché evitava eccessivi conflitti e tensioni sociali; i quali, alla lunga, potevano diventare pericolosi anche per la tenuta della società (e per i miliardari stessi).
Furono istituiti agenzie e uffici legati alla nuova politica economica. Ciò produsse ulteriori nuovi posti di lavoro, rendendo inoltre più efficace ed influente la burocrazia statale, fino ad allora quasi inesistente.
Nel 1936 il successo della politica antiliberista di Roosevelt trovò la teorizzazione definitiva negli scritti di un economista britannico, forse il più autorevole del XX secolo: il barone John Maynard Keynes (1883-1946). Il quale dimostrò (con la sua opera “Occupazione, interesse, moneta. Teoria generale”) che in tempi di crisi, per salvare l’economia, lo Stato deve assumere lavoratori: anche costo di prendere alle proprie dipendenze alcuni operai per scavare una buca e altri per riempirla subito dopo. Non per assistenzialismo, ma per tutelare la domanda, permettendo la redistribuzione della ricchezza e la circolazione del denaro, senza la quale la stessa economia capitalistica muore per asfissia.
Possiamo trarre da tutto ciò qualche insegnamento per l’Italia di oggi? Una riflessione con gli studenti sull’argomento potrebbe risultare proficua e stimolante. Ne parleremo in un prossimo articolo.
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