I sostenitori della didattica esperienziale, “attiva e cooperativa” sempre e comunque, oggi assai in voga dalle parti del Ministero (che siano consapevoli o meno del loro possibile ruolo di facilitatori dei progetti di smantellamento della scuola pubblica), partono da un dato di fatto senz’altro vero nella sua estrema genericità: si impara solo attraverso l’esperienza, gli apprendimenti realizzati attraverso l’esperienza sono i più duraturi.
Ora, dov’è l’equivoco? Innanzitutto sta nella genericità accattivante della definizione (tutto è esperienza; e ci sono esperienze positive, sì, ma anche esperienze negative e controproducenti. Gli ideologi dell’esperienza hanno le ‘competenze’ psicologiche per saper distinguere davvero le une dalle altre?); poi, nonostante l’ampiezza della definizione, sta nell’escludere rigorosamente dal novero delle esperienze solo la lezione (ridotta rapidamente all’insensata definizione di “frontale”), la spiegazione o la “trasmissione di conoscenze” (che non è mai semplicemente tale, se non per una clamorosa confusione – introdotta a forza nel dibattito pubblico da chi vuole eliminare le conoscenze stesse dalla scuola – tra condivisione, elaborazione, attualizzazione e acquisizione di conoscenze da una parte e “nozionismo” o “informazioni” presenti nel web dall’altra).
Be’, qualunque persona di buon senso dovrebbe capire che questa esclusione è del tutto arbitraria: perché la spiegazione di un insegnante e lo scambio che ne deriva, per uno studente, non potrebbe rivelarsi un’esperienza importantissima, fondamentale, cruciale? Ci sono persone che hanno preso una direzione, di studio, umana o professionale, perché le parole di un insegnante hanno aperto dentro di loro spazi imprevisti di curiosità, di passione, di conoscenza, di emozione, di pensiero. Non dimentichiamo che l’apprendimento, più che da una generica esperienza, che potrebbe anche essere del tutto insignificante, viene rafforzato dall’emozione che lo accompagna: è la memoria emotiva che senza dubbio influisce sulla memoria esplicita o dichiarativa, facilitandola o depotenziandola.
C’è di più: la lezione, considerata non in modo statico ma dinamico, è costituita da innumerevoli interazioni, verbali, non verbali, affettive, immaginative tra l’insegnante e il gruppo classe; rappresenta cioè una modalità di relazione, che ha al centro la parola. In quale altra esperienza, più che nella relazione, una persona mette in gioco tutta se stessa, i suoi affetti, le sue paure, le sue fantasie, i suoi pensieri, i suoi bisogni, le sue angosce? Sicuramente un’esperienza relazionale che si incarni in una buona lezione permette una maggiore sottolineatura dei contenuti, la cui memorizzazione, rielaborazione e acquisizione è rafforzata dalle emozioni che la accompagnano, ed è promotrice di crescita personale e di maturità sociale, visto che mette in movimento importantissime dinamiche sia individuali che di gruppo.
Va poi precisato che la lezione è fatta di tanti momenti diversi e di modalità didattiche che si alternano a seconda della situazione: ribadirne la centralità non significa escludere una molteplicità di approcci, né negare valore all’esperienza, anzi; così come nessuno si sognerebbe mai di mettere in discussione il ruolo fondamentale del gioco, del divertimento, dell’imitazione in molte fasi dell’apprendimento. Il problema di chi ritiene che la lezione, come metodo didattico, sia “superata”, al solito, è l’astratto totalitarismo metodologico, che scambia fini e mezzi, rende questi ultimi fini a se stessi e chiude il pensiero anziché aprirlo. Bion stesso d’altronde parlava di apprendere dall’esperienza, consapevole che l’interazione nel gruppo portava ad apprendere l’uno dall’altro e uno nell’altro, proprio perché il gruppo è contenitore di tutta una serie di emozioni che accompagnano e favoriscono l’apprendimento. Questo può avvenire anche attraverso una modalità laboratoriale, certo; ma perché non dovrebbe avvenire in quell’esperienza capace di coinvolgere tutto il gruppo che è la lezione? La stessa attività laboratoriale, perché sia utile al progresso della conoscenza, necessita di una restituzione di senso guidata dall’insegnante, di una cornice di parole che la inserisca in un contesto significativo.
Insomma, quando si dice che la lezione in classe sarebbe “superata”, si cade in un evidente paradosso: si esclude cioè dal novero delle esperienze proprio un rapporto umano profondamente personalizzato e fondato sulla parola e sulla relazione, di cui le persone in crescita hanno un grandissimo bisogno, che passa per la condivisione appassionata e il lavoro comune sulle conoscenze e sui contenuti culturali, e si esaltano altre esperienze (c’è chi pensa seriamente che con dei video gli studenti imparerebbero di più che dal rapporto con gli insegnanti; c’è anche chi dice che gli studenti con difficoltà cognitive – che non sono mai solo tali – sarebbero aiutati in modo davvero efficace da programmi informatici di intelligenza artificiale), alcune delle quali lasciano lo studente tristemente solo con se stesso; anzi, per dirla francamente, hanno in sé qualcosa di autistico.
Per questo, tutta la voglia che si vede in giro di “superare” la lezione e addirittura di smantellare i gruppi classe deve metterci in sospetto: e il sospetto è che alla base di questa voglia ci siano motivazioni ideologiche, ‘politiche’ o economiche, più che psicologiche, pedagogiche, culturali, di affettuosa sollecitudine per il futuro delle nuove generazioni. Sottrarre valore alla lezione in classe, con la sua plasticità e concretezza, con le dinamiche di gruppo che insegna a vivere, e sostituirla con metodologie didattiche astratte, fini a se stesse, non di rado inefficaci e dispersive, non significa affatto “mettere al centro” gli studenti, significa esattamente l’opposto.
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La lezione scolastica è un ponte tra le generazioni. I giovanissimi, nella loro curiosità e nel loro enorme bisogno di trovare un senso alla realtà interna ed esterna a sé, cercano prima di tutto degli adulti che spieghino loro le cose, che diano indicazioni, che si interessino a loro e parlino proprio a loro, che abbiano delle storie e delle esperienze umane (il cui ‘concentrato’ sono i contenuti culturali) da raccontare, che gli aprano conoscenze, per non doversi confrontare immediatamente con un illimitato del reale (oggi anestetizzato ma non elaborato attraverso la dipendenza dell’iperconnessione) che spaventa e paralizza chi deve affrontarlo da solo, per avere un luogo protetto fatto di parole e di punti di riferimento su cui far crescere i propri pensieri, le proprie fantasie e i propri sentimenti; poi andranno avanti da soli, in una scoperta culturale, di idee e di significati, che durerà per tutta la vita.
Luca Malgioglio (insegnante), Alessandro Zammarelli (psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista SIPRE)
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