Attualità

Lezioni in classe: il neoliberismo come dogma e le sue conseguenze

Abbiamo già parlato della possibilità di spiegare agli studenti delle Scuole Superiori (specie quelli che si preparano per l’esame di Stato) alcuni aspetti della congiuntura economica e politica attuale con esempi tratti dalla Storia recente: in particolare, ci sembra interessante un parallelo tra la crisi del 1929 e la crisi attuale; ed anche tra le soluzioni adottate negli Stati Uniti degli anni ’30 col “New Deal” e quelle che l’attuale Governo italiano sta cercando di varare.

Certo, Giuseppe Conte non è Franklin Delano Roosevelt, il New Deal non è il “reddito di cittadinanza” e l’Italia di oggi non è l’America di 85 anni fa. Tuttavia, può essere interessante e fruttuoso far riflettere i ragazzi di oggi sulla contrapposizione fra scuole di pensiero in campo economico, e sul fatto che nessuna dottrina (soprattutto economica) può esser considerata definitivamente e totalmente valida. Infatti lo sviluppo del pensiero critico è la finalità ultima della Scuola istituita dalla Costituzione democratica.

I dogmi del credo liberista…

A quei tempi (come oggi), il Verbo liberista era sovrano e indiscusso. L’allora Presidente USA Herbert Clark Hoover, milionario e liberista ortodosso, allo scoppio della crisi si convinse che la crisi stessa e le sue conseguenze fossero dovute alla scarsa fiducia dei cittadini statunitensi nell’avvenire, e che bastasse raccontar loro che le cose sarebbero migliorate per farle migliorare davvero.

Infatti non prese nessuna misura per addolcire le precarie condizioni economiche dei disoccupati e delle famiglie cadute in miseria; al contrario, aiutò molto amministrazioni, gruppi finanziari e banche!

Divenne molto impopolare, ma continuò imperterrito a credere nei propri stessi slogan e nel loro taumaturgico potere. Tanto che, quando tentò la rielezione nel 1932, alla fine della campagna elettorale appariva ormai addirittura malinconico, stremato, abbattuto.

Ovunque andasse, veniva impietosamente fischiato dalla moltitudine come nessun altro presidente prima di lui (cfr. Rosario Villari, Sommario di storia. Vol. 3: 1900 – 2000, Laterza Edizioni Scolastiche, 2002, p. 175).

E pensare che pochi anni prima, nel discorso col quale accettò la candidatura presidenziale, aveva trionfalmente affermato: «Noi in America oggi siamo più vicini al trionfo finale sulla povertà che mai nella storia di qualsiasi terra. La casa dei poveri sta scomparendo tra di noi. Non abbiamo ancora raggiunto l’obiettivo ma, data la possibilità di andare avanti con le politiche degli ultimi otto anni, avremo presto, con l’aiuto di Dio, la fortuna di vedere il giorno in cui la povertà sarà bandita da questa nazione»!

…ma la causa del disastro era proprio il liberismo

Anche una teoria economica può evidentemente trasformarsi in religione e, come ogni religione, sfociare nel fideismo più cieco. La Grande Depressione, in realtà, fu innescata proprio dai comportamenti della classe dirigente yankee e dei Presidenti di cui abbiamo già scritto. I quali, con pervicace sicumera, piccandosi di voler sempre più favorire gli investimenti ed il “passo indietro” dello Stato rispetto agli interessi privati (al fine di liberare le “energie animali” del capitalismo) ridussero quasi zero la spesa pubblica e abbassarono il più possibile il tasso d’interesse, di modo che le imprese avessero più agio nel ripagare i prestiti (e le banche nel concederli e nel guadagnarci sopra). Nello stesso tempo portarono ai minimi termini l’imposizione fiscale sui redditi. Smisero, infine, di esercitare qualsivoglia genere di controllo sulla regolarità delle maggiori concentrazioni di capitale. Aiutarono i ricchi, insomma, ad esser sempre più ricchi, e rinunciarono de facto a governare l’economia.

La moda della Borsa…

Per di più negli anni ‘20 aveva preso piede negli Stati Uniti un fenomeno di massa molto simile alle dinamiche che anche noi abbiamo vissuto negli anni ‘90 e nei primi anni del terzo millennio: la moda dell’investimento in borsa. Moltissime persone, anche di classe media e della piccola borghesia, impiegavano i propri soldi nel gioco di borsa, comprando azioni per poi rivenderle quasi subito e lucrare sulla differenza tra prezzo d’acquisto e di rivendita. Gli investitori aumentavano sempre più di numero, accrescendo enormemente una bolla speculativa che, ovviamente, non poteva esser destinata durare in eterno. Nella “Big Board” (la Borsa di New York) in quattro soli anni le azioni trattate erano più che raddoppiate e, nei due anni che precedettero il crollo, era raddoppiato il loro valore.

…ma era un boom illusorio

Eppure le persone in difficoltà economiche si contavano a milioni. L’agricoltura dell’est era in sovrapproduzione, perché le nuove avanzatissime tecniche agricole avevano determinato un eccesso dell’offerta di prodotti rispetto alla domanda, mentre però quest’ultima non cresceva, anche a causa della povertà dei salari (i quali aumentavano molto meno della produzione, tenendo alti i profitti delle imprese ma impoverendo i salariati). Di conseguenza i prezzi dei prodotti agricoli dell’est scendevano drasticamente, preparando la rovina dei produttori. I tre quarti dei cittadini statunitensi vivevano d’altronde con meno di 2.500 dollari l’anno, che bastavano appena per sopravvivere con un minimo di dignità; nel frattempo il 33% dell’intero reddito nazionale entrava nelle tasche di un americano su venti.

Ciò significa che la crescita della ricchezza aveva arricchito solo una minoranza: quella delle persone già ricche. Di conseguenza la stragrande maggioranza dei cittadini non aveva denaro sufficiente per consumare tutti i prodotti sfornati dal sistema produttivo. La domanda, insomma, era fortemente inferiore all’offerta. Peraltro il sistema bancario era molto vulnerabile, perché costituito da moltissime piccole banche, tutte private.

In un prossimo articolo vedremo cosa accadde, infine, quando tutti questi nodi vennero al pettine.

Alvaro Belardinelli

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