Notizia recentissima (7 febbraio): la Commissione Europea ha tagliato la previsione di crescita del Pil italiano per il 2019 dal +1,2% delle previsioni autunnali +0,2. Ciò significherà minore fiducia dei “mercati” nei confronti dell’economia italiana; e, di conseguenza, rischio concreto che la profezia si autoadempia: infatti, in economia come in psicologia, spesso una previsione si realizza per il solo fatto di esser stata espressa (in un rapporto circolare tra causa ed effetto), perché è la previsione stessa a provocare l’effetto annunciato.
Ebbene, sempre più spesso gli insegnanti si sentono chiedere dagli studenti (specie dell’ultimo anno dei Licei) spiegazioni circa questi fenomeni, la situazione economica dell’Italia attuale e le scelte del Governo. Può essere utile spiegare ai nostri ragazzi la dialettica che da 80 anni contrappone dottrine economiche neoliberistiche e idee keynesiane, approfondendo lo studio della crisi del 1929 e del New Deal di F. D. Roosevelt.
Si è discusso molto in Italia, negli ultimi mesi, sulle decisioni del Governo Conte in campo economico: se cioè sia saggio aumentare il deficit dello Stato per finanziare misure favorevoli ad una ripresa della domanda interna. Scelte come il “reddito di cittadinanza” sono state molto criticate da tutti gli schieramenti politici (tranne i due di Governo, ossia M5S e Lega), quasi fossero un pericoloso salto nel buio, dovuto mero calcolo politico demagogico e populista, finalizzato ad aumentare il consenso nei confronti dei vincitori delle elezioni del 4 marzo 2018. La scelta di diminuire in piccola parte l’età pensionabile (al fine di diminuire la disoccupazione e permettere alle persone di non esser costrette a lavorare fino alla soglia dei 70 anni) è stata dipinta come l’inizio del tracollo dell’INPS, come la fine dei conti pubblici, come la condanna a morte del nostro Paese. Le istituzioni e gli enti internazionali con cui l’Italia ha a che fare (Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea, agenzie di rating, banche d’affari americane, multinazionali) minacciano l’Italia di gravissime conseguenze (che non mancherebbero di coinvolgere per prima la Scuola).
Eppure scelte analoghe queste furono espresse e messe in pratica 85 anni fa da uno dei massimi statisti del secolo scorso, e salvarono il Paese più potente della Terra dalla catastrofe. Lo statista si chiamava Franklin Delano Roosevelt, ed il suo Paese erano gli Stati Uniti d’America, in preda alla depressione economica più terribile del secolo XX: la “grande crisi” del 1929.
Ma come si era arrivati al celeberrimo “crollo di Wall Street” che diede il via alla “grande depressione”?
Dopo la Prima Guerra Mondiale la ricchezza dell’Europa (immiserita dal conflitto) era stata di gran lunga superata dall’opulenza degli Stati Uniti, che erano diventati — già allora — la più grande potenza economica del pianeta. Negli anni ‘10 del Novecento il prodotto delle fabbriche statunitensi era cresciuto soltanto del 12%. Ebbene, nei sei anni che separano il 1922 dal 1928 la crescita salì a 64 punti percentuali. Molto prima che in Europa, le masse popolari statunitensi si trasformarono in masse consumatrici: si diffuse negli USA il consumismo, e di conseguenza il credito al consumo e l’acquisto di beni a rate; la pubblicità divenne moderna, efficace, martellante; le merci venivano distribuite con tecniche avanzate, ed erano prodotte in quantità enormi, mai viste prima.
In politica economica vigeva un credo dogmatico, molto simile a quello di una fede religiosa: la dottrina liberistica, considerata l’unica dottrina economica possibile. Secondo il Verbo liberista gli interessi dei privati investitori venivano prima d’ogni altra istanza, fosse pure di natura sociale o umanitaria. Si era convinti che, assecondando l’egoismo individuale, magicamente questo egoismo avrebbe favorito l’evoluzione della società tutta, permettendo sviluppo e benessere infiniti e perpetui. Lo Stato doveva “lasciar fare”, limitandosi a osservare il libero gioco degli interessi privati.
Di questo autentico dogma erano stati convinti tutti i presidenti degli Stati Uniti. Lo era stato Thomas Woodrow Wilson (1856-1924), presidente dal 1913 al 1921, che guidò gli USA alla vittoria nella Grande Guerra. Lo fu Warren Gamaliel Harding (1865-1923), che occupò la Casa Bianca nel biennio 1921-1923 (morto metà del mandato). Lo fu il suo successore John Calvin Coolidge junior (1872-1933), presidente dal 1923 al 1929. Lo fu, infine, Herbert Clark Hoover (1874-1964), immediato predecessore di F.D. Roosevelt, ed insediato nello Studio Ovale da quel terribile 1929 al 1933.
Ebbene, non abbiamo forse vissuto qualcosa di molto simile dagli anni ‘80 in poi? E la crisi attuale non può richiamare alla mente, per violenza e durata, quella del ’29? Una riflessione in classe con i ragazzi più grandi potrebbe rivelarsi stimolante per studenti e docenti. Ne parleremo più diffusamente in un prossimo articolo
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