Una volta si chiamavano ripetizioni, parola che a me è sempre sembrata denigratoria, sminuente ed umiliante (“sei scemo, non capisci niente, quindi hai bisogno di qualcuno che ti ripeta e ti ripeta le cose”).
Molti colleghi insegnanti sono fondamentalmente contrari (“il ragazzo deve capire dalle mie spiegazioni in classe”), forse perché temono, se invece il ragazzo non capisce, di essere accusati di incapacità didattica.
Quando insegnavo e qualche genitore mi domandava se non fosse il caso di mandare il rampollo a ripetizione io non dicevo né sì né no, perché ho sempre ritenuto che sia una scelta da compiere in seno alla famiglia. Due cose però raccomandavo: 1) lo studente deve essere convinto di prendere lezioni private; 2) lo studente e la famiglia non devono credere che si va a ripetizione necessariamente perché si è incapaci o per l’appunto scemi. Su quest’ultimo aspetto insistevo in modo particolare, memore di quanto succedeva a me 50 anni fa alle medie: mia madre si vergognava che io dovessi andare a ripetizione di matematica, materia che per me è sempre stata dolorosa. Come molte mamme, non voleva che il suo figliolo passasse per ritardato per deficiente, preoccupazione questa che negli anni è stata smentita perché poi sono diventato insegnante. Ovviamente non di matematica, bensì di tedesco.
Daniele Orla
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