Può il docente opporsi a scelte didattiche imposte da direttive politiche che non condivide? Fino a che punto l’insegnamento è libero in Italia? Quali limiti possono contrapporsi alla libertà didattica dell’insegnante?
La categoria docente ha risentito spesso, negli ultimi 30 anni, di una tendenza alla rassegnazione rispetto a scelte politiche tutte, di governo in governo, sostanzialmente coerenti nella direzione della scuola-azienda; la quale — malgrado le retoriche e ricorrenti dichiarazioni formali di ossequio alla libertà d’insegnamento — appare sempre più gerarchizzata, verticalmente incentrata sui poteri del “dirigente” e “datore di lavoro”, e tenuta ad applicare quanto proviene — unilateralmente — dal ministero. In tutto ciò, tuttavia, un dato è certo: la libertà d’insegnamento è un diritto indisponibile, insindacabile, non sanzionabile. Nessuno — né genitori, né dirigenti — può pretendere da un docente la modifica di valutazioni o di metodi didattici, i quali al massimo possono esser messi in discussione dai docenti del consiglio di classe: ossia in un rapporto dialettico tra pari.
Ciò dimostra che libertà didattica non significa — ovviamente — per il docente “poter fare ciò che vuole”; ma che unico limite alla libertà d’insegnamento può essere la decisione collegiale dei docenti (i soli professionisti titolati a decidere in materia) nel loro insieme. Allo stesso modo, solo ai medici è lecito valutare professionalmente il comportamento dei medici, giacché solo chi conosce la medicina è in grado di comprenderlo. E lo stesso accade per giornalisti, avvocati, magistrati: tutte categorie tutelate — non a caso — da un ordine professionale che per gli insegnanti, inspiegabilmente, manca (come mancano d’altronde in Italia — guarda caso — retribuzione dignitosa, considerazione sociale adeguata, rappresentanza sindacale effettiva).
Si potrebbe pensare che con la cosiddetta “autonomia scolastica”, presente ormai da un quarto di secolo, la libertà d’insegnamento sia cresciuta; invece il vissuto dei docenti è nettamente in contraddizione con questa apparenza, giacché la figura del dirigente scolastico, emanazione del ministero e delle sue diramazioni locali, concentra nelle proprie mani responsabilità e poteri talmente estesi, da trasformare l’autonomia scolastica de iure in autonomia de facto del dirigente rispetto ai singoli docenti (mentre i docenti universitari giustamente ancora eleggono il Preside di Facoltà).
Il Collegio, tuttavia, ha ancora un potere molto grande, essendo l’organo sovrano in materia di organizzazione didattica e in tutte le scelte che riguardano l’insegnamento. L’unico vero limite questo potere potrebbe risiedere nel fatto che i docenti non ne fossero consapevoli, ed abdicassero alle prerogative che ne conseguono, per timore, per quieto vivere, o (peggio) per conformismo. E persino la gerarchia, che va imponendosi nelle istituzioni scolastiche, ha in realtà evidenti limiti giuridici.
Se — come sancito dall’articolo 33 della Costituzione — «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento», ciò significa che nessun potere politico, nessuna burocrazia gerarchicamente sovraordinata, nessuna ideologia economica può arrogarsi il diritto di impedire l’insegnamento di contenuti ritenuti collegialmente irrinunciabili da chi ha giuridicamente i requisiti per conoscere, riprodurre ed insegnare arte e scienza; le quali non sono invenzioni astratte e discutibili, ma discipline codificate da secoli, dotate di propri strumenti, di proprie tecniche di verifica, di un proprio rigore epistemologico, di proprie istituzioni e di propri ordinamenti.
Non esiste pertanto né arte né scienza “ufficiale” o “di Stato”. Non si può obbligare, di conseguenza, nessun docente seguire principi pedagogici differenti da quelli in cui — in scienza e coscienza — egli (o ella) creda. Unico limite alle sue scelte didattiche può essere l’orientamento collegiale della maggioranza dei suoi pari; ma pur sempre nel rispetto della sua personale visione (che potrebbe in seguito — come spesso nella Storia — rivelarsi quella giusta!). E comunque ciò dimostra che insegnanti consapevoli possono legittimamente organizzarsi ed impedire qualsiasi deriva autoritaria (a patto che davvero lo vogliano).
Non può esistere alcun obbligo calato dall’alto, neppure in nome del “progresso tecnologico” o dei cambiamenti sociali; giacché è interesse collettivo che sia la Scuola — democratica e pluralista — a educare ed orientare la società; e non il contrario. Se fosse la società ad imporre la propria volontà a una Scuola non libera di rielaborare il sapere, qualsiasi aberrazione sarebbe possibile, qualsiasi involuzione della civiltà realizzabile.
Gli stati che impongono agli insegnanti di insegnare questo anziché quello, e di insegnarlo in un modo anziché in un altro, si chiamano dittature. Le loro scuole sono officine di riproduzione del pensiero totalitario, fabbriche di ingranaggi nella macchina per l’annullamento del raziocinio e per la fine del libero pensiero.
Con una Scuola ridotta così, assisteremmo all’inverarsi di un tecnologico medioevo di macchine “intelligenti”, pronte a sostituire esseri umani istupiditi e trasformati in addetti alle macchine, inconsapevoli macchine essi stessi, senza più empatia, slanci, ideali, desideri, fantasia, speranza, se non quella di nuovi, tecnologici, emozionanti, stupefacenti consumi da consumare in un batter di ciglia per averne di nuovi. Intelligenti pauca.
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