Il quotidiano Il Fatto ha dato in esame i dieci testi tra quelli in dotazione nelle scuole medie e superiori milanesi alla docente di storia contemporanea dell’Università Statale di Milano, tra i massimi esperti in storia della cultura materiale, Emanuela Scarpellini, già insegnate a Stanford e Georgetown. La prof li ha esaminati e dopo quattro giorni ha emesso questa sentenza: “Il Secolo breve, per gli italiani, è diventato brevissimo. La politica si è impadronita della storia e penalizza il futuro dei nostri giovani”.
Per essere ancora più precisi, “basta analizzare indici e suddivisione dei capitoli per scoprire che l’intera età contemporanea è la vittima sacrificale della manualistica per le scuole. La storia repubblicana, ad esempio, viene risolta in 20-25 pagine. Uno studente finisce per sapere tutto di Otto von Bismarck o Cavour e ben poco del ruolo dei partiti nel Novecento, di De Gasperi, di come è nato il nostro welfare di cui tanto si discute”.
Il motivo di tanto poco interesse alla storia recente sta nel fatto che “in Italia la storia è intesa sopratutto come storia politica. Su quella più recente si attende, con prudenza a volte eccessiva, che ci siano posizioni consolidate sul fronte ideologico prima ancora che politico. Questo è avvenuto certamente per i totalitarismi e non senza aspre polemiche, non ancora sulla storia repubblicana degli ultimi 60 anni su cui permane un velo interessante e interessato. Noi lo vediamo agli esami, quando i diplomati non sanno rispondere a domande elementari, tipo: “Cos’è il compromesso storico?”.
Da ciò si deduce che “i manuali sono per forza il frutto di una selezione. Il punto è che guardare la storia con l’occhio della politica è per il nostro Paese una scelta molto infelice, visto che in questo ambito non abbiamo dato proprio il meglio di noi. Anche quella recente è fatta di luci e ombre, non tutti – evidentemente – vogliono ammettere le seconde insieme alle prime. Chi scrive i manuali lo sa ed è condizionato nelle sue scelte, ben oltre la responsabilità di rispettare il giudizio storico. I testi che produce spesso si limitano a fare la cronaca spiccia degli avvenimenti più importanti, senza entrare nel merito e nel contesto. E lasciano così un buco trentennale nella memoria dei più giovani”.
Buco che nasce dal preconcetto “che si può fare storia solo dopo 30 anni dai fatti, quando si possono aprire gli archivi. Questa scelta porta a escludere in blocco decenni di storia. Se negli ultimi anni, poniamo, la storia politica è fatta di fatti poco rilevanti e discutibili, ce ne sono altri di grande portata che meritano una prospettiva storica che viene semplicemente rimossa”. Questo significa che se per caso “uno venisse da Marte e volesse conoscere la nostra storia attraverso i testi scolastici arriverebbe a conclusioni distorte se non proprio false. Che la violenza nella storia, ad esempio, resti confinata al contesto europeo e fino alla metà del ‘900 e oggi sia perfino estinta. Nessuno, infatti, scrive delle guerre d’Africa, dei totalitarismi in Cina o delle repressioni in Sud America in tempi molto più recenti. La violenza invece è un tratto continuo della storia”.
Ma non finisce solo qui l’analisi: “Non tutti i manuali hanno quella apertura verso l’internazionalizzazione che un giovane d’oggi deve avere. La maggior parte è impostata sul binomio Italia-Europa come motore della storia che è decisamente antistorico. L’Asia è un accenno, l’intera America Latina non c’è proprio, in barba ai forti collegamenti culturali ed economici che ha col nostro Paese. Questa rimozione, in un mondo globalizzato, può avere effetti molto negativi sulla proiezione dei nostri studenti nel mondo, limita i loro orizzonti e dunque le loro possibilità rispetto a studenti di altri Paesi meno tradizionalisti. La tendenza della storiografia italiana a raccontare la politica produce una percezione distorta del ruolo che abbiamo nel mondo. E alla fine di noi stessi. Nei manuali la società, la scienza, la cultura, l’arte e in tempi recenti l’impresa e il made in Italy che ci fanno apprezzare nel mondo non ci sono. Pensate a come abbiamo saputo creare un modello di cucina che esportiamo ovunque e tanto lavoro può dare ai nostri giovani”.
Eppure i testi scolastici “fanno parte di quelle esperienze che contribuiscono a determinare l’identità di una persona, di una comunità e di una nazione intera. Il peccato originale dell’Italia, la politica padrona della storia, può condizionare sotto il profilo pedagogico gli studenti e alimentare negli italiani adulti la disistima, la fatica a rapportarsi col mondo e a intraprendere un cammino evolutivo nella pienezza della propria storia. Vince così quel vittimismo che ci trasciniamo dalla Rivoluzione industriale, spesso senza motivo”.
Si dovrebbe fra l’altro studiare anche “molte altre storie. Ad esempio che a parte il Giappone, se stiamo alla storia, non esistono molte nazioni che abbiano saputo industrializzarsi ed elevare il proprio benessere velocemente come l’Italia. All’inizio del ‘900 avevamo un reddito pro-capite pari a un quarto di quello delle altre nazioni europee. In 50 anni siamo riusciti a portarci alla pari. In Spagna, per dire, hanno impiegato diversi decenni di più. Ma non ce lo raccontiamo mai, neppure a scuola. Con cosa andiamo a competere, se non conosciamo quello che abbiamo fatto e sappiamo fare?”
Per uscire da questo circuito maldestro “le case editrici stanno iniziando a integrare materiale di testo e prodotti digitali e multimediali per allargare col web i riferimenti culturali, economici, sociali a lungo così sacrificati. Il futuro lo immagino con testi ridotti al minimo e materiali “aperti”, dove i primi continueranno nella pretesa di avere tutta la storia, ma i secondi allargheranno l’orizzonte della conoscenza e permetteranno l’approfondimento verticale dei fatti e dei contesti”.
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