Grande è la confusione sopra il cielo dei licei del Made in Italy e la situazione – per restare all’adagio attribuito a Mao Tse-tung – è tutt’altro che eccellente. La faccenda è nota: sono state al di sotto delle aspettative le iscrizioni dei ragazzi alle due “punte di diamante” del progetto di rinnovamento scolastico promosso dal governo, e cioè il Liceo del “made in Italy” e il percorso 4+2 della cosiddetta filiera tecnico-professionale. Soprattutto nel primo caso, il liceo che avrebbe dovuto rilanciare i prodotti nazionali, in tutto il Paese ci sono state appena 375 iscrizioni, lo 0,08% del totale. Veramente troppo poche per un liceo che avrebbe dovuto, nelle intenzioni espresse dal governo, “in vista dell’allineamento tra la domanda e l’offerta di lavoro, promuovere le conoscenze, le abilità e le competenze connesse al made in Italy”.
Inoltre, secondo una nota inviata dal MIM alle scuole, il nuovo percorso dovrebbe consentire agli studenti di “sviluppare competenze imprenditoriali idonee alla promozione e alla valorizzazione degli specifici settori produttivi del made in Italy”.
Di fronte alle 375 iscrizioni il momento il ministro Giuseppe Valditara e la sottosegretaria Paola Frassinetti hanno fatto buon viso a cattivo gioco, rilasciando commenti di moderata soddisfazione. Ma ora bisogna farle partire queste benedette “prime” dei nuovi licei.
In termini numerici con 375 alunni si potrebbero formare all’incirca una quindicina di classi: il fatto è che le iscrizioni sono disperse tra la novantina di scuole, in 19 regioni, che hanno aderito al progetto del Governo. Le regioni sono 19, e non 20, perché l’ostracismo della Campania ha finora fermato le 22 scuole che avevano aderito al progetto (8 tra Napoli e provincia, 6 nel Casertano, 4 nel Salernitano, 2 in Irpinia e 2 nel Sannio).
Caso Campania a parte, è possibile, a conti fatti, che in molte scuole non ci siano i numeri per attivare le prime classi del liceo Made in Italy. Difficile, infatti, ipotizzare che si possano autorizzare anche classi da 7-8 alunni, perché si rischierebbe di creare un precedente: quello di formare classi al di sotto dei tetti minimi fissati dalle norme di legge. Più facile ipotizzare che i dirigenti scolastici possano favorire un dialogo con i genitori degli alunni iscritti al LES, il liceo economico- sociale per favorire un travaso di iscritti tra i due tipi di liceo, visto che il liceo delle Scienze umane con indirizzo economico-sociale ha registrato oltre 84.000 iscritti.
Da una serie di contatti che La Tecnica della Scuola ha avuto con docenti e amministrativi di molte delle scuole che hanno aderito, in varie regioni, sembra che questa possa essere una soluzione. Nessuno però vuole uscire ancora allo scoperto, anche per non restare “bruciati”, come è accaduto al dirigente dell’Istituto lombardo Munari di Crema, che sembrava essere riuscito ad attivare una classe del liceo Made in Italy, partendo da una sola iscrizione. La senatrice Simona Malpezzi (Pd) l’aveva definita “una forzatura inaccettabile” e proteste erano arrivate anche dalla senatrice Aurora Floridia, di Alleanza Verdi e Sinistra.
Poi una dichiarazione del preside della scuola Munari, riportata dal quotidiano “La Provincia”, ha troncato ogni polemica: “Senza adesioni volontarie da parte delle famiglie,il liceo del Made in Italy non partirà”. La scuola proporrà agli iscritti all’economico-sociale di spostare l’iscrizione sul Made in Italy, ma, se non ci saranno adesioni, il Made in Italy non si farà.
Di certo, come dicono la senatrice Malpezzi ed altre voci non solo dell’opposizione, “la riforma è nata male e di corsa”, ma le prospettive, per i giovani, di affermazione professionale e di dare un contributo alla crescita del proprio paese e della propria regione sono comunque interessanti.
Proprio in questi giorni è stata pubblicata una ristampa aggiornata di “Foglie d’alloro. Vivere e narrare il romanzo appassionante del Made in Italy”, un memoir che racconta la vita sfidante e gli incontri, tra il 1960 e il 2000, di Tommaso Maria Gliozzi, un giovane Trade commissioner dell’ICE che, partito da un piccolo paese della Calabria, Ardore, ha saputo rappresentare, come molti suoi colleghi, – spesso in modo originale, da Vancouver a Melbourne, da Dublino a Sofia e nelle grandi città tedesche – le eccellenze e le peculiarità delle produzioni e delle aziende italiane, superando ostracismi e scetticismi di interlocutori spesso supponenti e prevenuti. E questo anche in settori impensabili.
“In Canada per esempio – ricorda Gliozzi – nella regione dell’Alberta, nel paniere dei nostri prodotti più richiesti c’era anche lo sperma dei tori italiani, specialmente di razza Chianina, per l’inseminazione artificiale delle mucche canadesi”.