Il peccato dell’adultismo è consistito, in un passato poi non molto remoto, nel ritenere il bambino un adulto in miniatura, e dunque un essere imperfetto, dal momento che durante l’infanzia mente e corpo hanno abilità, capacità, competenze che sono ancora ben lontane dalla maturità.
Tutti gli insigni pedagogisti della tradizione hanno osteggiato tale visione, ognuno con propri apporti che hanno avuto in comune il riconoscimento dell’età infantile come peculiare e con propri diritti nel campo dell’educazione: al gioco, agli spazi adeguati, a una conoscenza rapportata all’età, al rispetto dei propri limiti, ossia di quei confini che l’educatore non può superare se non votando – se stesso e il bambino – al fallimento.
Chi opera nel primo ciclo dell’istruzione sa bene come le varie Indicazioni Nazionali abbiano curato tale aspetto: da quelle del 2004 che rifiutavano la visione dell’Imbuto di Norimberga, a quelle del 2007 che ponevano l’enfasi sul concetto di scoperta, di strutture cognitive da “perturbare” per generare nuove conoscenze, a quelle del 2012 che hanno sottolineato, attraverso il motto “una scuola di tutti e di ciascuno”, la necessità dell’inclusione e della personalizzazione.
L’importanza del tempo scuola, o meglio del tempo a scuola, non è mai stata negli ultimi decenni messa in discussione, tant’è che si è rifiutata, a torto o a ragione, nel 2000, la proposta del Ministro Berlinguer di ridurre a sette gli anni di durata delle vecchie scuole elementari e medie. Il diritto alla serenità del bambino è imprescindibile e la normativa ne tiene conto.
Ma perché il medesimo diritto, collegato alla spensieratezza consapevole, attenta e responsabile dell’età tra i 14 e i 19 anni vuole essere oggi negato? Ci si riferisce al Piano nazionale di sperimentazione che coinvolgerà Licei e Istituti tecnici che ridurrà a quattro la durata degli stessi.
La motivazione sottesa è quella di favorire l’entrata anticipata nel mondo del lavoro ma così facendo, in primo luogo viene compromessa, per gli studenti di queste scuole, la possibilità di sentirsi giovanissimi uomini e donne impegnati, godendo del proprio presente, nella costruzione del futuro.
Gli anni delle scuole superiori non hanno il solo fine di preparare al lavoro ma, come i precedenti, quello di contribuire alla formazione della persona. Per questo per tantissimi adulti (purtroppo non per tutti) il ricordo di tali anni corrisponde alla definizione dei più belli della vita. Abbreviare tale periodo comporta la negazione di questo principio e la considerazione della scuola come solo funzionale al lavoro.
E’ un errore madornale dal momento che a scuola si va anche per altri motivi, tutti quelli ribaditi daiRdA comuni suddivisi in 5 aree nel PECUP (Allegato A del D.P.R. 89/2010): metodologica, logico-argomentativa, linguistica e comunicativa, storico-umanistica, scientifica, matematica e tecnologica e anche da quelli specifici; così come il PECUP degli Istituti Tecnici (Allegato A del D.P.R. 88/2010) sottolinea la necessità di sviluppare sia una solida preparazione di base sia competenze specifiche relative al proprio indirizzo.
La specificità degli indirizzi risponde al bisogno di far ruotare la scuola attorno agli interessi primari dello studente, al fine di formare una persona che poi lavorerà in maniera proficua e non alla logica di essere una preparazione esaustiva e definitiva nel settore al fine di creare una macchina per il lavoro.
Quello che si nega non è la capacità degli studenti (ma non di tutti) di potere conseguire tali risultati di apprendimento in 4 anni anziché in 5.
Si contesta la sottrazione di un anno di giovinezza per farli divenire adulti con un anno di anticipo.
Non si nascondono poi altre perplessità: si contesta da ogni parte che la scuola superiore si fermi “troppo presto”, che gli studenti conoscano Manzoni ma non gli autori del secondo ‘900, che non si orientino tra gli avvenimenti storici del passato recente e della contemporaneità.
Gli insegnanti sanno bene che ciò accade perché il tempo “non basta”, tant’è che, specialmente nei Tecnici, solamente una sparuta minoranza di studenti ha potuto, per la prima prova degli ultimi Esami di Stato, scegliere l’analisi relativa a Caproni.
Cosa accadrà con un anno di tempo in meno? Certamente l’obiezione riguarda la considerazione che la scuola ha prioritariamente il dovere di preparare lo studente ad apprendere per tutto l’arco della vita. E si tratta di un’obiezione sacrosanta.
Ma se si tengono i piedi per terra non si può non riconoscere che lo studente che si iscriverà a Ingegneria Caproni, nella sua vita, non lo leggerà mai. Poco male, certo, ma solo se si ha la presunzione di assegnare alle facoltà scientifiche un primato su quelle umanistiche. La medesima considerazione può e deve essere naturalmente operata anche dalla prospettiva opposta. Con i provvedimenti restrittivi del Ministro Gelmini alla scuola è già stato chiesto un sacrificio orario considerevole, e purtroppo docenti e studenti vi si sono dovuti adeguare: le discipline sempre considerate fondamentali per l’acquisizione delle competenze ma molte con un’ora settimanale in meno!
Non si vuole nemmeno contestare l’importanza del lavoro. Ci mancherebbe! E infatti si approva l’intensificazione del tempo dedicato all’alternanza scuola-lavoro sancita dalla L. 107/2015.
Ma lasciamo ai giovani la giovinezza! Non votiamoli a un adultismo precoce!Non neghiamo il diritto, alla la fascia di età 14-19 anni, di godere della propria giovinezza. Non si crede però, aprioristicamente, che questa età sia spensierata per natura. Anzi. Spesso i giovani sono infelici e ne hanno motivo. Spesso le loro condizioni di vita economiche, familiari, li inducono a una sofferenza tale da far loro desiderare il lavoro e un salario come unica soluzione e prospettiva. Ma non è questo un atteggiamento da assecondare, “condonando” un anno di studio. Sono ben altre le soluzioni!
E se il tempo scuola in Italia è considerato troppo lungo si risolva la questione nel modo più ovvio: abolendo il 3+2 nelle Università. Se tanto, del Ministro Moratti si sono apprezzati i provvedimenti relativi al primo ciclo di istruzione, altrettanto non si può dire del 3+2 che appare, oggi come allora, privo di senso. Che senso ha una laurea breve in Economia e Commercio? Attualmente le aziende scelgono o i laureati o i diplomati. Nella realtà, chi ha conseguito una laurea breve, si è trovato con una palla al piede. E in Lettere? E’ risibile: con la laurea breve quale attività – reale, non sulla carta – si può svolgere? Ecco che il 3+2 ha allungato di un anno il percorso universitario. Ma con quali vantaggi?
Francamente, non se ne vedono altri che quello di avere garantito ai docenti un tempo di insegnamento maggiore.Ma sono docenti degni di rispetto anche quelli dei Licei e dei Tecnici che con questa sperimentazione vedono invece ridotto il proprio organico.
Una considerazione finale che ci si augura sia solo frutto di una fantasia polemica: nel passato (si consideri ad esempio la Legge Casati) l’attenzione massima, nonostante le misure per contrastare l’analfabetismo, era posta sulla formazione delle future classi dirigenti.
Ed ecco che il liceo classico godeva di una reputazione incontrastata. Si puntava su questa scuola come l’unica – e non si sostiene di sicuro che ciò sia stato giusto! – in grado di fornire quella preparazione d’eccellenza che si riteneva dovesse essere di pertinenza di quanti avrebbero gestito la cosa pubblica.
Che si tenda, oggi, anche mediante il sacrificio di un anno, a volere una classe dirigente sempre meno preparata e sempre, di conseguenza, più asservita a certe logiche? Non lo si vuole credere, ma…
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