In questa campagna elettorale, al momento un po’ stucchevole, è tornato perfino lo scontro fra licei e istituti tecnici, riportato in auge da Carlo Calenda, leader di Azione, per il quale tutti i ragazzi dovrebbero andare al liceo e poi frequentare i corsi professionali e tecnici. “Prima devono essere formati l’uomo e il cittadino”, dice, e “Molti dei ragazzi che frequentano gli istituti tecnici hanno un problema di preparazione gigantesco”.
A leggere il programma per la Scuola di Azione-Italia Viva si trova, in effetti, l’idea di un riordino complessivo dei cicli scolastici, portando l’obbligo a 18 anni, e facendo terminare le superiori un anno prima, in modo da “allinearsi agli standard europei”. L’istruzione professionale va rivista, è scritto, perche “gli studenti degli istituti professionali sono sotto la media europea specie in lettura e matematica”, quindi vanno rafforzate nel primo biennio “le materie di carattere generale e trasversale”.
Nihil sub sole novum. Anzi il dibattito è quanto mai trito e ritrito per chi nella scuola ci lavora. Le prime discussioni risalgono a ben 22 anni fa, quando fu approvata la contestata riforma dei cicli di Berlinguer, poi cancellata dalla Moratti, e rimaneggiata nella parte proprio dei tecnici e dei professionali da Fioroni e Gelmini. Praticamente tutti i ministri dell’istruzione ci hanno messo mano, compreso Renzi, la cui Buona Scuola attribuiva grande importanza all’Alternanza scuola lavoro.
L’uscita di Calenda ha fatto scoppiare immediatamente la polemica sullo snobismo di considerare i licei scuole di serie A e i tecnici e professionali scuole di serie B, svalutando così gli studenti che scelgono questi percorsi dedicati alla formazione di professionalità e competenze molto richieste dal mercato del lavoro. Il quotidiano Libero del 26 agosto dedica alla querelle due pagine. A parte lo scambio di battute fra Calenda e Salvini, che tengono banco qualche ora sui social per evaporare nel nulla, il giornale mette l’accento sul fatto che una riforma dovrebbe portare a una ulteriore valorizzazione e miglioramento dei percorsi tecnico-professionali proprio perché scarseggiano lavoratori con competenze specifiche, ampiamente richiesti da un mercato che non li reperisce. Anche questa non è un novità. Confindustria Education batte il chiodo da quasi 20 anni.
Libero riporta una intervista a Marco Granelli, emiliano, titolare di un’azienda di costruzioni e presidente di Confartigianato Imprese, che ne rappresenta 700 mila, con un milione e mezzo di addetti. “Sminuire il saper fare è un errore strategico” dice chiaro e tondo. “L’Italia si trascina da decenni un modello culturale sbagliato che separa l’insegnamento accademico da quello professionale, e invece ci dovrebbe essere complementarietà: é fondamentale rispondere alle nuove esigenze di mercato, le aziende devono essere messe nelle condizioni di puntare sui giovani del proprio territorio. Nel mondo artigiano manca il 34% di manodopera, di cui il 50% nel settore delle costruzioni”.
Che fare allora? L’imprenditore intervistato da Libero, nel suo ruolo di presidente di Confartigianato Imprese, qualche idea concreta ce l’ha. Per esempio, incentivare l’apprendistato professionalizzante (che consente allo studente di conseguire il diploma e contestualmente di inserirsi in un contesto aziendale di lavoro, con regolare e specifico contratto), ripristinare la decontribuzione, totale per i primi 3 anni di contratto per le imprese artigiane, e prevedere degli incentivi per le spese di formazione dell’apprendista. Poi é fondamentale rilanciare l’alternanza scuola-lavoro con voucher formativi. E va anche innalzato il livello dei percorsi formativi, tenendo costantemente sotto osservazione le necessita delle aziende, soprattutto oggi che la tecnologia corre velocissima ed è essenziale in ogni settore.
Insomma tutto il contrario di una formazione generalista, ma più qualità e aggiornamento dei percorsi professionalizzanti.
I dati riportati da Libero sembrano confermare che questa è la strada giusta da seguire. Il ministero del Lavoro ha pubblicato il monitoraggio nazionale del 2022, realizzato da Indire su incarico proprio del ministero: su 5.280 diplomati degli istituti tecnici e professionali l’80% ha trovato un’occupazione nel corso dell’anno 2021, nonostante le restrizioni e le difficoltà causate dalla pandemia.
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