Dura lex sed lex? Sì, ma non per tutti, cosicché se si truffa, se si ruba, se si falsificano gli atti, dai punteggi per insegnare ai benefici per la legge 104, se non si timbra il cartellino si può pure transigere e rimanere al proprio posto di lavoro, ma se si fa pipì, alle due di notte, sopra un cespuglio di un paesino sperduto sulle montagne bergamasche, la mannaia della giustizia si benda e impone a Stefano Rho, nato 43 anni fa a Lacor, in Uganda, di lasciare il posto di docente di ruolo di filosofia.
A raccontare l’episodio particolarmente grottesco, Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera.
Il professore Stefano Rho, padre di tre figli, nato in Uganda, dove il padre e la madre facevano i medici volontari per il Cuamm-Medici con l’Africa, mettendo su un piccolo ospedale dopo essersi sposati, non riesce a capacitarsi che una pipì permalosamente impellente possa tanto sconvolgere la sua carriera e il suo futuro di padre di tre figli e di professionista.
Laureato in filosofia, racconta Stalla sul Corriere, Stefano Rho in Italia ha fatto tutta la trafila tra catene di concorsi e supplenze fino ad avere il posto da insegnante.
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“Problemi? Zero. Lo dichiara lo stesso «Certificato penale del Casellario giudiziale» dove è scritto chiaramente: «Si attesta che nella Banca dati del Casellario giudiziale risulta nulla». Tuttavia “undici anni fa però, qualcosa successe. Un episodio così marginale, in realtà, che quasi tutti ce lo saremmo dimenticati. È la sera di Ferragosto 2005. Il paesello di Averara, un pugno di case con 182 abitanti in una valle laterale della Val Brembana, ha organizzato per i concittadini e la gente dei dintorni una sagra paesana con un ospite d’onore, un cabarettista di Zelig. Pienone. Al punto che molti giovani, tra cui Stefano e il suo amico Daniele, non riescono a entrare. Gironzolano nei dintorni, e finalmente, sul tardi, un attimo prima che lo stand chiuda, riescono a bere una birra. Poi, come tutti i ragazzi del pianeta, si fermano un po’ a chiacchierare e tirano tardi. Alle due di notte, mentre gli ultimissimi nottambuli risalgono sulle loro auto per andarsene, «gli scappa». Si guardano intorno. La festa ha chiuso. Il paese, salvo un lampione qua e là, è immerso nel buio. Non c’è un bar aperto a pagarlo oro. Men che meno dove stanno, al limite della contrada. Che fare? Stefano e Daniele fanno pipì su un cespuglio. In quell’istante passa una pattuglia di carabinieri. «Ci hanno visto, chiesto i documenti, fatto una ramanzina bonaria rimproverandoci perché secondo loro c’era un lampione che un po’ di luce la faceva e ciao».
“Un anno dopo i due si ritrovano imputati, davanti al giudice di pace di Zogno: duecento euro di multa: «Non abbiamo neanche fatto ricorso e neppure preso un avvocato di fiducia. Ci sembrava una cosa morta lì».
Ma la cosa non era morta lì, perché il 2 settembre 2013 il professor Rho, da quattordici anni precario come insegnante di filosofia in varie scuole superiori, firma per il Ministero un’autodichiarazione dove spunta la voce in cui dice «di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di sicurezza e di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi scritti del Casellario giudiziario ai sensi della vigente normativa». Tra mesi dopo, il dirigente scolastico gli comunica che da un controllo è risultato che lui, il professor Rho, risulta «destinatario di un decreto penale passato in giudicato». E lo invita a presentarsi a fine gennaio del 2014 per spiegarsi.
Avute le spiegazioni, il dirigente riconosce che anche se avesse dichiarato il falso, perfino se fosse stato in malafede, non ci avrebbe guadagnato nulla. Anzi. Quindi, «tenuto conto del principio della gradualità e proporzionalità delle sanzioni in rapporto alla gravità delle mancanze», decide di dare al malcapitato il minimo del minimo: la censura. Buon senso. Ma a questo punto scatta le legge che, se non riesce a mettere in galera neanche un trentacinquesimo dei «colletti bianchi» che vengono incarcerati in Germania, che scarcera sicari mafiosi perché ha scordato una scadenza dei termini e non ce la fa quasi mai a processare i bancarottieri prima che cada tutto in prescrizione, decide che però che il nostro insegnante deve pagare per quella pipì fuori posto.
E la Corte dei conti, nonostante quella colpa non prevede neppure l’iscrizione nella fedina penale (rimasta infatti candida) né un «motivo ostativo» all’assunzione nei ranghi statali, ricorda alle autorità scolastiche che Rho va licenziato.
E così finisce: licenziato. Anche la scuola prende atto della intimazione dei giudici contabili e dichiara la decadenza «senza preavviso» dell’insegnante, la perdita delle anzianità accumulate negli ultimi anni insegnando, la cancellazione del «reo» da tutte le graduatorie provinciali e così via.
Le domande: la legge italiana è davvero uguale per tutti o dipende dal giudice che capita? Non manca, in coda a questo pasticciaccio brutto, il dettaglio paradossale: il professor Rho, che come dicevamo ha una moglie e tre figli da mantenere ed è stato buttato fuori con così feroce solerzia l’11 gennaio da un pezzo dello Stato, era stato definitivamente assunto da un altro pezzo di Stato il 24 novembre.
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