Interessante documento del Collegio dei docenti del Liceo Classico “Gioacchino da Fiore” di Rende (Cosenza) che respinge nettamente la proposta di istituire il liceo breve.
Il 3 agosto scorso è stato comunicato dal MIUR che 100 istituti, a partire dal 2019, sperimenteranno in tutta Italia il liceo breve. Il Ministero individuerà le Istituzioni scolastiche selezionandole sulla base dei progetti di sperimentazione formulati e presentati dai Collegi docenti.
In data 1 settembre il Collegio Docenti del Liceo Classico “Gioacchino da Fiore” di Rende ha espresso all’unanimità il proprio dissenso rispetto a questa sperimentazione, decidendo pertanto di non attuare nessun progetto in tal senso.
Tuttavia, poiché la nostra Istituzione scolastica ha costruito negli anni la propria identità pedagogica e culturale anche sulla sperimentazione di metodologie moderne e innovative, praticando con successo la didattica laboratoriale, ci è sembrato doveroso motivare in modo chiaro ed esplicito le ragioni di tale scelta, affinché essa non appaia come espressione di una qualche forma di pigrizia o di refrattarietà al cambiamento, ma piuttosto come una decisione ponderata e sofferta, proprio perché potrebbe apparire impopolare: quello che anima da sempre le nostre iniziative è la ricerca di ciò che può migliorare i processi di crescita umana e culturale dei nostri studenti, in un rapporto di dialogo e collaborazione con le famiglie, alle quali è rivolta in modo particolare questa lettera aperta.
Ci si chiede di comprimere in quattro anni ciò che si dovrebbe svolgere in 5, ma il “come” è demandato ai collegi docenti, investiti di un’enorme responsabilità: la progettazione del curriculo a quattro anni, e tale impresa colossale deve essere pronta entro un mese.
Quando poi ogni collegio, in tutta Italia, in realtà socioculturali e geografiche così diverse, produrrà la sua proposta di liceo breve, come potranno 100 proposte diverse essere campione? Quale progetto di fatto sarà individuato come quello che modellerà la struttura del liceo in 4 anni per tutta l’Italia?
E quando anche questo progetto (il migliore che si possa immaginare) fosse messo in atto, come risponderà la platea studentesca? ricordiamo che già nel decreto si scrive che gli studenti dovranno essere molto motivati e preparati, per poter intraprendere la sperimentazione in quattro anni, che si prefigura come una scuola impegnativa e gravosa. Quali studenti, che poi diventeranno un modello campione nazionale, sceglieranno un percorso così intenso e faticoso (che richiederà ore aggiuntive il pomeriggio e giorni di scuola in più)? Sarà davvero una scuola inclusiva, per tutti, o non si corre il rischio di creare un percorso privilegiato per gli studenti provenienti da ambienti familiari a più alto tasso di scolarizzazione, e come tali più pronti e preparati ad affrontare questa prova?
Altro problema non piccolo è la gestione delle ore obbligatorie di alternanza scuola – lavoro, 200 nei Licei; come si concilia questo obbligo di legge (che rappresenta già una sottrazione di tempo allo spazio scolastico vero e proprio) con la riduzione a 4 anni? In quali momenti si potrà svolgere? Qualcuno ipotizza nelle vacanze estive, o addirittura durante quelle di Pasqua e di Natale!
Ma ne vale davvero la pena? Noi pensiamo che eliminare un anno scolastico non serva ad incoraggiare i ragazzi a non lasciare la scuola, ma piuttosto ad avallare l’insofferenza verso la concentrazione e lo studio. È così che si combatte la dispersione scolastica? Accelerando il momento dell’uscita dalla scuola? E con quali prospettive? Quelle della corsa all’Università con le sue barriere del numero chiuso? Quelle barriere non si superano senza una giusta dose di maturazione fisiologica oltre che con le competenze disciplinari e trasversali. O c’è forse un mondo del lavoro che attende ansiosamente i nostri giovani?
Ma parliamo dei compiti specifici che la Scuola come istituzione si propone di adempiere. Sappiamo già che il tempo dello studio dei nostri studenti tende a ridursi, per l’aumento degli stimoli esterni del web e dei Social, che spesso si tramutano in cattivi maestri per gli adolescenti lasciati soli davanti allo schermo dello smartphone. E non sono solo i più deboli ad aver bisogno di cura e sostegno nel percorso di maturazione, attraverso i tempi, e la calma che ogni singola persona richiede.
Vale la pena ricordare che secondo le ultime rilevazioni ISTAT in Italia circa una persona su 5, ossia il 18,5% della popolazione, non svolge alcuna attività culturale, anche se semplice e occasionale, e cioè nell’ultimo anno non ha né letto un libro o un giornale, né visitato un museo, una mostra, un sito archeologico, né è andato a teatro, al cinema, a un concerto a uno spettacolo sportivo e nemmeno a ballare. Una percentuale che sale al 28,2% al Sud, e cala al 12,1% nel Nord Est. Questo fenomeno, definito come analfabetismo funzionale, è il risultato di una degenerazione culturale del nostro tempo, in cui conta solo produrre, lavorare freneticamente, consumare, senza mai fermarsi, trascurando l’abitudine di coltivare la lettura e i piaceri dell’intelletto.
Viviamo in un mondo veloce, dove il tempo sembra via via contrarsi: continuamente connessi, chiamati a rispondere in tempi brevi a e-mail, tweet e sms, iper-sollecitati dalle immagini, in una frenesia visiva e cognitiva dai tratti patologici. Dimentichiamo così che il cervello è una macchina lenta e, nel tentativo di imitare le macchine veloci, andiamo incontro a frustrazioni e affanni.
Il professore Lamberto Maffei, presidente dell’Accademia dei Lincei ed ex direttore dell’Istituto di Neuroscienza del Cnr, in un volume intitolato “Elogio della lentezza” (ed Il Mulino) ci guida nell’esplorazione dei meccanismi cerebrali che inducono all’eccesiva velocità e ci mostra i vantaggi del pensiero lento, che asseconda i tempi naturali della macchina, il cervello appunto. «Il desiderio di emulare le macchine rapide create da noi stessi, a differenza del cervello che invece è una macchina lenta, diventa fonte di angoscia e di frustrazione» scrive Maffei. E aggiunge: «La netta prevalenza del pensiero rapido, a partire da quello che esprimiamo attraverso l’uso degli strumenti digitali, può comportare soluzioni sbagliate, danni all’educazione e perfino al vivere civile». L’uomo non è programmato per essere troppo veloce. Così recita un vecchio proverbio popolare: Respira, prima di parlare. E nell’attimo del respiro c’è il riconoscimento del valore della lentezza che, allo stesso tempo, riesce a farci ascoltare le ragioni degli altri prima di esporre le nostre. Solo questo ritmo, non sottoposto alla pressione di continui strappi, porta al vero dialogo ed a una vera ricerca di reciproca conoscenza.
Come scuola sentiamo il dovere di rivendicare il valore della lentezza come capacità di ascolto, riflessione, meditazione profonda, e soprattutto di difendere tenacemente il diritto dei nostri giovani a custodire il tempo della loro crescita, in quanto è il tempo prezioso delle esperienze, di uno studio che ha bisogno di essere metabolizzato e sedimentato nella coscienza di futuri cittadini. Arriverà, ahinoi, fin troppo presto, il momento di affrettarsi verso la vita con i suoi affanni e le sue prove. La scuola, come suggerisce il grande filosofo Edgar Morin, deve “Insegnare a vivere”. Il compito dell’educazione non è semplicemente spiegare, in termini concettuali oggettivi, ma offrire una comprensione umana, che richiede apertura verso l’altro, capacità di dialogare attraverso un’esperienza comunicativa che trova ancora oggi nella scuola il suo terreno privilegiato, la sfera protetta e rassicurante in cui i nostri giovani devono poter rimanere per tutto il tempo necessario a diventare adulti.
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