L’ignoranza è diventata un business, un settore di mercato che, a poco a poco, ha finito col divorare tutti gli altri.
Linkiesta apre una riflessione interessante su un tema che certamente riguarda la scuola: lo sfruttamento dell’ignoranza a fini commerciali.
Infatti, scrive Linkiesta.it, prima si consumavano prodotti di massa, ma nello stesso tempo esisteva una tensione, anche solo da parte di una nicchia, di fare una sorta di selezione all’ingresso e rivolgersi a un pubblico specifico.
Col tempo, però, cominciò a farsi largo in maniera sempre più insistente una domanda: perché sforzarsi di tenere alta l’asticella della qualità, se abbassandola si possono abbattere i costi e aumentare il profitto?
E così si è dato il via a un sistema economico quantitativo, dove il valore di qualsiasi cosa si misura solo ad esclusivamente sulla base del numero di click – a prescindere che tali click siano stati effettuati da membri della Scuola di Francoforte o da un branco di pecore – il mercato ha potuto sbarazzarsi, in pochissimi anni, di ogni foglia di fico, diventando libero di produrre solo contenuti neutri destinati a un pubblico generico e indifferenziato. Un pubblico che non solo non desidera la qualità perché incapace di riconoscerla, ma che, in un totale ribaltamento di prospettiva, riconosce nella quantità l’unica unità di misura per giudicare il valore di qualsiasi cosa, si tratti di un prodotto, di un’idea o di una persona.
Un pubblico ignorante, insomma, per il quale è vera l’opinione che fa tanti like, non importa se espressa dall’esperto o dal primo che passa per strada; e per il quale esiste solo ciò che è abbastanza neutro da piacere a tutti, mentre quello che crea una reazione, e che quindi fa giocoforza selezione, non viene censurato ma è destinato a scomparire da solo, come sono scomparse le contro-culture.
È il mondo del giornalismo gossipparo, che a sinistra mette le notizie serie e a destra una foto Instragram con la bonazza del giorno in bikini ultra-ridotto.
È il mondo di Youtube, dove impazzano scoreggiatori seriali, stereotipi sui meridionali che mangiano tanta parmigiana o sui milanesi schiavi del lavoro, diciottenni con problemi di cuore romanzati come nei peggiori libri Harmony; e dove tuttavia detti Youtubers, che fanno dell’assenza di talento la loro unica cifra stilistica, invadono da protagonisti il mondo del cinema e dell’editoria, monopolizzando il catalogo della principale casa editrice italiana.
C’è da prendere atto che la strategia commerciale ha funzionato, il neo-liberismo ha abbassato l’asticella fino al livello del suolo e i consumatori hanno risposto positivamente.
Anzi: hanno risposto così positivamente che le cose sono sfuggite di mano e il business dell’ignoranza ha finito per allargarsi anche alla politica; la quale, a sua volta, non ha fatto altro che mettersi a rimorchio del mercato: infatti, da anni, non c’è più un partito o un leader politico – e non solo tra le fila dei movimenti cosiddetti populisti, basta analizzare l’intera parabola di Barack Obama – che non faccia della demagogia e del gentismo più bieco la propria ragione sociale.
Per questo non è in atto alcuna guerra popolo contro élite: le élite economiche non sono mai state così forti, basta guardare le dimensioni di Leviatani come Google o Amazon; e il popolo non è mai stato così contento di consumarne i prodotti, di abbracciarne la logica.
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