Ho provato a prendere in mano un dizionario della lingua italiana, provando a capire che cosa sia accaduto, nella scuola di oggi, alle parole “educazione” ed “educazione”. Insegnare significa letteralmente “imprimere segni dentro”, cioè fare in modo, con le parole ma anche con l’esempio, che lo studente possa acquisire cognizioni, un’abitudine, la capacità di compiere qualcosa, o anche il modo di fare un lavoro e di esercitare un’attività.
Educare, invece, significa “condurre fuori”, cioè promuovere con l’insegnamento e con l’esempio, tramite il dovuto esercizio, lo sviluppo delle facoltà intellettuali e delle qualità morali di una persona. Imprimere dentro e tirare fuori.
Bellissimo: si imprime dentro qualcosa, affinché possa venir fuori qualcosa. Si imprimono dentro delle conoscenze e, grazie all’impegno profuso per apprenderle, possono emergere dei valori. L’insegnamento può essere così il grande strumento attraverso il quale noi insegnanti possiamo aiutare i ragazzi a diventare uomini veri, cioè grandi, maturi, belli.
A diventare insomma un po’ di più se stessi, e a fiorire ciascuno secondo la propria specie, cioè secondo le proprie qualità.
L’educazione è l’acqua grazie alla quale i semi presente in ciascuno possono fiorire, di modo che ognuno possa scoprirsi un po’ di più e diventare sempre più se stesso, assomigliando sempre più a quello che per natura è chiamato a diventare. Tramite l’istruzione e l’educazione, le qualità e le predisposizioni proprie di ciascuno, che sono già lì nella loro natura, possono svilupparsi e crescere verso il raggiungimento della piena maturazione.
L’educazione insomma è ciò che umanizza l’uomo, rendendolo sempre migliore: trae dal buio le sue qualità e permette loro di emergere alla luce. Esse sono già in lui, chiedono solamente di emergere.
Proprio come il seme è già possibilità di diventare albero se adeguatamente curato, custodito e innaffiato, così è per l’uomo: la possibilità di diventare sempre di più se stesso è già in lui, è già lì dentro. Manca solo l’acqua dell’educazione.
Per questo motivo è vitale fare bene il proprio lavoro sempre, chiedendo all’alunno di farlo con altrettanto impegno, senza abbassare mai la guardia ed il livello delle richieste, che devono essere sempre commisurate alle possibilità.
Non di più, ma neanche di meno. In ballo infatti c’è la crescita delle persone che abbiamo davanti e la loro scoperta di sé, la consapevolezza delle loro potenzialità, la loro maturazione. Se non si chiede tanto agli alunni – nei limiti delle loro possibilità e di quello che potrebbero e dovrebbero fare –, come possono scoprirsi? Come possono scoprire di possedere delle qualità, delle predisposizioni, degli interessi – o al contrario di non possederli –, se nessuno chiede mai loro di provare a scoprirli, impegnandosi con serietà? La posta in palio è troppo importante per pensare di essere superficiali.
È questo il motivo principale per cui sono così tanto deluso – e anche arrabbiato – per la piega che è stata data al sistema scolastico nel corso degli anni. Si chiede sempre meno, e ci si accontenta di ancora meno.
L’insegnamento, quello vero, quello delle conoscenze che hanno formato la nostra cultura, è stato pian piano ostracizzato a favore di corsi e di attività totalmente estemporanee che hanno l’unico effetto di sottrarre tempo utile all’educazione. Si è arrivati a pensare che l’educazione non abbia davvero a che fare con l’insegnamento, che per educare sia sufficiente introdurre nella scuola un sacco di corsi che prima non c’erano e chiamarli “educazione a…”, e così illudersi di aver fatto qualcosa per l’educazione dei ragazzi. Come se i ragazzi si educassero perché fanno dei corsi qualche volta all’anno. Si è separato completamente l’aspetto dell’istruzione da quello dell’educazione, come se fossero due cose diverse e inconciliabili. L’insegnante che dà brutti voti è diventato il “cattivo”; quello che chiede di esercitarsi e di studiare con continuità è il “nozionista” (per non parlare di quello che chiede le tabelline, i verbi o – udite udite – le date); quello che chiede un lavoro ben fatto, svolto con attenzione, che invita gli studenti a “perdere tempo” sulle pagine per impararle bene, quello che ritiene la capacità di sacrificio un valore che gli studenti dovrebbero imparare per poter vivere “da uomini”, è tacciato di “sadismo”.
Si è in sostanza fatta assurgere l’ignoranza a obiettivo formativo da salvaguardare e promuovere, eliminando gli ostacoli che osano interporsi. Oppure, il che è lo stesso, si è deciso di condannare a morte la società e la cultura. E così ci troviamo a dover fare i conti con una realtà di persone con voti sempre più alti ma sempre meno capaci di leggere, di parlare, di fare un conto un po’ più complesso di un’addizione (tra numeri di una cifra). Ovvero persone incapaci di ragionare, di avere un pensiero poco più che elementare, di possedere un linguaggio che abbia la possibilità anche minima di farsi comprendere. Le scuole però hanno tabelloni sempre più “verdi”, vantandosene pure, senza accorgersi del proprio scollamento con le realtà vera. La chiama pure “successo formativo”.
Un successo formativo che però ha tutte le sembianze di uno specchietto per le allodole, capace di mostrare mostra una realtà che in verità non esiste affatto se non su quei tabelloni, capace cioè di sotterrare una situazione tragica sotto un bel tappeto di voti verdi. Un po’ come quell’orchestra che suonava e invitava i passeggeri a ballare mentre il Titanic andava a fondo.
Marco Radaelli
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