Davvero lingua e letteratura italiana devono andare in soffitta? Dalla lettura del “Piano Scuola 4.0” si potrebbe dedurre che le cose stiano davvero così, tanti sono gli anglicismi di cui il “Piano” è infarcito.
«Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non il togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente». Parola di Sir Winston Churchill — celebre per aver guidato alla vittoria l’impero britannico nella seconda guerra mondiale — in un discorso pronunciato il 6 settembre 1943 in veste di primo ministro. Due giorni dopo, la rotta definitiva del Regno d’Italia avviava i 20 mesi di guerra civile che avrebbero liberato la Penisola dal nazifascismo. Churchill avrebbe commentato sarcasticamente che «Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio, e le partite di calcio come se fossero guerre». Bisogna ammetterlo: da secoli il mondo anglosassone non mostra grande stima e considerazione nei confronti degli italiani.
Gli italiani, invece, fanno a gara per compiacere gli anglosassoni. A cominciare dal dicastero italiano dell’istruzione pubblica. E non da oggi.
Era ministra dell’istruzione Valeria Fedeli (sindacalista CGIL, dotata di diploma triennale di scuola magistrale per l’insegnamento nella scuola materna, nonché di diploma triennale di assistente sociale) nell’aprile 2018, quando il MIUR veniva rimbrottato dall’Accademia della Crusca per l’uso “eccessivo e inutile” dell’inglese nei propri atti. In particolare, la Crusca criticava il “Sillabo programmatico” (pubblicato un mese prima per promuovere “cultura dell’imprenditorialità” alle superiori) per il suo “abbandono dell’italiano”: abbandono definito “programmatico, organico”, vero «modello su cui improntare la formazione dei giovani italiani».
Eppure, negli stessi giorni il presidente della Crusca aveva dimostrato che anche l’italiano è lingua di ricerca scientifica (come sanno gli svizzeri italofoni, spesso più coscienti che non gli italiani della propria identità linguistica e culturale).
2022: “Piano Scuola 4.0”. Diluvio di anglicismi: “Next Generation Classrooms”, “Next Generation Labs”, “Background”, “Framework”, “Roadmap”, “Future Labs”, “Digital board”, e via così. Un concerto di sudditanza linguistica e culturale. Sudditanza che induce subalternità psicologica ed emotiva: possibile che un “ministero dell’istruzione” non se ne renda conto?
La cultura italiana è patrimonio dell’umanità. Lo è dunque la sua lingua, e ancor più la sua letteratura, che gli italiani devono conoscere, per poterle tutelare a vantaggio di tutta l’umanità. Lingua e letteratura non nate per impulso di potenti monarchie assolute (come altre grandi lingue e letterature europee), ma per la forza stessa della propria cultura, secoli prima che l’Italia diventasse Stato unitario. Forza accentuata dalla varietà linguistica dei suoi dialetti regionali (parecchi dei quali dotati di letteratura e dignità proprie).
Testimone di questa possanza culturale fu nientemeno che la regina d’Inghilterra Elisabetta I (1533-1603), perfettamente padrona dell’italiano scritto e parlato, esperta di Petrarca e Tasso. Shakespeare stesso è stracolmo dell’Italia e del suo Rinascimento, faro di luce che traghettò l’Europa nella modernità. Tanto che sono state avanzate ipotesi (non bene accette in ambito britannico) su una possibile origine italiana del “Bardo”.
Testimoni della superpotenza culturale italiana, gli studenti ottocenteschi dell’università di Leida (la più antica d’Olanda) dipinsero all’ingresso di ogni aula qualche verso di Dante (come «Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate» ove si svolgevano gli esami).
E, a proposito di Dante — e della letteratura come alimento delle risorse stesse della sopravvivenza umana — non dimentichiamo quanto Primo Levi scrive, in “Se questo è un uomo“, a proposito dell’episodio dantesco di Ulisse. Il «Fatti non foste a viver come bruti» risuona nella mente dell’Autore deportato ad Auschwitz; ma riecheggia potente anche nel cuore di Pikolo, suo interlocutore che non conosce l’italiano, ma che comprende il senso dei versi dall’emozione con cui gli son spiegati e tradotti. Sottolinea Anna Angelucci nel suo recente saggio sulla letteratura scuola: «Le parole di Dante sul senso del nostro essere umani ‘riguardano’ più che mai Levi e Pikolo, che nell’eco di quei versi, faticosamente ricordati, pronunciati e ragionati, ritrovano per un istante la loro umanità perduta. La letteratura ci riguarda».
E la letteratura italiana riguarda tutta l’umanità. Per questo suo valore va protetta. È giusto e utile che proprio gli italiani dimentichino l’eredità di cui la Storia li ha resi custodi? È tollerabile che la lingua italiana faccia la fine della lingua etrusca, la quale, pur presente ancora persino in lemmi italiani moderni (come “mondo” e “persona”), fu assorbita dal latino e infine dimenticata? È tollerabile che gli italiani ignorino quanto la cultura anglosassone — da loro oggi creduta superiore — sia figlia di quella latina (e italiana), e non immaginino nemmeno che il 65% del lessico inglese deriva dal latino (lingua dell’antica Roma, capitale — da troppi italioti vituperata — dell’Italia di oggi)?
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