La nostra tradizione culturale e storico-politica ha la necessità di essere tramandata da docenti qualificati attraverso la narrazione del passato, del presente per essere proiettata alle diverse possibilità che le configurazioni dell’attualità socio-economica e storico-politica offrono al ragionamento e alla riflessione di ogni singolo studente attraverso la competenza personale, acquisita dal dialogo e dal confronto diretto e personale con gli altri e con i docenti.
Non è la guida all’uso del cellulare in classe, giustificata dai fini didattici, sotto la guida degli insegnanti che favorirà un uso più sensato dei dispositivi mobili da parte degli studenti, ma bensì il senso maturato dall’apprendimento tradizionale, anche nozionistico, e dalla riflessione comparata del passato, del presente e della proiezione futura rapportato alle esperienze dei vissuti personali di ognuno.
Il fatto stesso poi di attribuire funzione didattica ed educativa all’uso guidato del cellulare da parte degli insegnanti in classe nelle ore di lezione, tale da giustificare la codifica di un decalogo da parte del Ministro in carica del Miur finisce davvero per collocarlo, contrariamente all’intenzione della ministra Fedeli, nel regno dei fini e non dei mezzi.
Infatti al punto 5. I dispositivi devono essere un mezzo, non un fine, la contraddizione all’intenzione della Ministra è già dimostrata. Emblematico è anche il contenuto del paragrafo che prosegue: “…È la didattica che guida l’uso competente e responsabile dei dispositivi. Non basta sviluppare le abilità tecniche, ma occorre sostenere lo sviluppo di una capacità critica e creativa.
Ma purtroppo, con questa ossessionante rincorsa all’esaltazione della tecnologia e dell’uso dei dispositivi digitali tout court, qui rappresentati addirittura come paradigmatici di un modo di fare didattica, a scapito del sapere e della trasmissione delle conoscenze del sistema tradizionale, si ricade inevitabilmente, senza possibilità di scampo, nella teocrazia della tecno-digitalizzazione, e quindi in quell’errore che anche la Ministra per sua ammissione aveva in premessa affermato di voler evitare.
E paradossalmente dall’evoluzione più spinta nel campo dell’informatica, della tecnologia e dei mezzi digitali, disseminati in tutti i campi della nostra vita quotidiana, quali sono stati i vantaggi ed i benefici che ne sono derivati per la specie umana, a parte l’efficientismo dei processi produttivi e la disponibilità immediata di informazioni?
L’involuzione e l’imbarbarimento dei costumi, dei modelli culturali della nostra tradizione storico-politica, la perdita o comunque il disconoscimento dei valori e dei principi della nostra tradizione religiosa, cristiana e cattolica, e con essi la perdita del senso dell’essere persona, e non semplicemente un “dispositivo” vivente conformato ai dispositivi tecno-digitali, funzionali al sistema di appartenenza e alla globalità del mondo virtuale.
Bisogna fare attenzione, perché la perdita del senso dell’essere persona non è fra i cambiamenti necessitanti, citati in premessa dalla Ministra che, come tali, hanno in sé un valore intrinseco ed in quanto tali devono essere accettati e metabolizzati.
Perché in questo specifico caso la perdita del senso dell’essere persona reca con sé come effetto, anche quella deresponsabilizzazione che è proprio il contrario di quello che la Ministra ha invocato, insieme alla capacità critica, all’autonomia e alla consapevolezza, in molti punti del decalogo predisposto per l’uso dei mezzi digitali, e nel caso specifico del cellulare. Ma come è possibile pensare di accostare e, peggio ancora, di far derivare in funzione deterministica dall’uso guidato del cellulare, caratteristiche che sono proprie della personalità matura di un soggetto psicodinamicamente evoluto, le quali devono necessariamente preesistere per essere messe in pratica nell’impatto con l’uso dello smartphone e del tablet in classe nelle ore di lezione?
In questo caso sono i grandi maestri della filosofia che si agiteranno nelle loro tombe all’idea che anche il “principio di non contraddizione” e “distinzione”, rimasti inconfutati nel tempo, siano stati annientati dalla creativa disposizione della ministra Fedeli su una nuova modalità di fare didattica, dove la tecnologia e il digitale non servono all’uomo, ma assoggettano l’uomo a loro stessi e al sistema.
Mi sento il dovere di ribadire, senza paura di essere smentita dai fatti, dai tempi, e dai tecnici del pool di valutatori del decalogo, scelti dal Miur, che senza la conoscenza del sapere tradizionale e la crescita personale, uniche fautrici dello sviluppo della capacità critica e creativa, della consapevolezza, dell’autonomia e responsabilità, la didattica, intesa come apprendimento di uno stile di vita personale orientato al benessere personale e relazionale, non esiste più e quindi rimangono soltanto le sole abilità tecniche a cui dice di essere contraria anche la Ministra stessa.
A beneficio di quella capacità critica e consapevolezza, invocate come un mantra dalla ministra nel decalogo e nelle recenti celebrazioni del culto della digitalizzazione nelle scuole, di cui alcune ancora senza connessione di rete, a livello nazionale, proporrei una lettura attenta ed una riflessione da parte degli studiosi ed esperti in materia sulla costruzione di un decalogo pieno di contraddizioni e di illogiche deduzioni, predisposto per un “fine” che dovrebbe in realtà nell’intenzione della ministra Fedeli essere un “mezzo”.
E tutto in nome dell’innovazione, divenuta il “vitello d’oro” di un’umanità sperduta ed abbandonata a se stessa dal sistema, che ha assunto sempre più il ruolo della parola d’ordine per legittimare non ciò che effettivamente crea ed aumenta il benessere della collettività, ma in funzione strumentale e subordinata al rispetto dei parametri della comunità europea da cui dipende.
Mara Massai