Perché l’Italia investe sulla scuola meno d’ogni altro Paese europeo? Risponde Stefano d’Errico nel suo ultimo libro: “L’invasione degli italioti”. 679 pagine di testo; 41 di bibliografia; 28 di indice dei nomi. Un trattato su Italia e italiani dopo 30 anni di neoliberismo, dismissione del welfare, scelte politiche scellerate su scuola e sanità. Decenni di ingegneria sociale volta smantellare quanto di buono si era fatto dal 1945 al 1975, a trasformare i modelli economici, antropologici, filosofici di riferimento del Paese che, sconfitto nel secondo conflitto mondiale, era diventato nel 1991 il quarto del pianeta per potenza economica e industriale.
Segretario nazionale del sindacato di base Unicobas Scuola e Università, d’Errico ha dedicato tutta la propria vita a difendere la scuola pubblica dal tentativo (finora riuscito, almeno in parte) di trasformarla in qualcosa di assai diverso dall’istituzione che il dettato costituzionale prevede.
Perché la scuola italiana è dal 1982 l’unica d’Europa subire ogni anno tagli economici? Perché tutti i governi italiani, di ogni colore, tagliano da 40 anni la quota di spesa pubblica destinata all’istruzione? Perché l’obbligo scolastico italiano è più breve di quello dei Paesi più avanzati d’Europa? Perché siamo tra i paesi d’Europa in cui si leggono meno libri pro capite l’anno? Perché gli italiani si stanno progressivamente dealfabetizzando? Perché il tasso di abbandono della scuola dell’obbligo sta arrivando livelli da terzo mondo? Perché si nota sempre più l’ignoranza (non solo politica) di tanti parlamentari italiani?
Leggere quest’opera è esplorare gli inferi. L’esposizione schietta, senza falsi pudori, svela le condizioni mentali, psicologiche, caratteriali del nostro popolo oggi. Nell’antichità il termine “italiota” non era offensivo: designava i coloni greci del sud Italia, la Megàle Hellàs (per i Romani “magna Graecia”). La culla della civiltà, sic et simpliciter. Se l’Autore sceglie il termine “italioti” per definire gli italiani di oggi, lo fa con riferimento alla parola “idiota”: la stessa (idiòtes) con cui i Greci antichi definivano i cittadini che non si occupavano di politica, chiusi nei propri affari privati.
Nel privato, appunto, la massa degli italiani si è rinchiusa totalmente (tranne rare eccezioni che non fanno tendenza): frutto estremo di quella strategia della tensione che per un quindicennio (dal 1969 al 1984) bombardò la Penisola proprio per indurre disaffezione alla politica?
Negli anni ‘60 e ‘70 un brivido prerivoluzionario aveva percorso l’Italia, insieme alla speranza di un cambiamento in meglio.
40 anni dopo, gli italiani sono irriconoscibili. Una massa che sceglie troppo spesso il vincitore, non perché migliore ma perché vince; se poi vince per disonestà non importa (anzi meglio, perché “ci sa fare”). Troppi preferiscono strisciare davanti al tiranno piuttosto che opporglisi; troppi aggirano l’ostacolo anziché affrontarlo. Un po’ come il popolo che coniò nel ‘500 (dopo secoli di splendore e indipendenza) il motto “Francia o Spagna, purché se magna”. Indegni del proprio grande passato, indegni del Rinascimento, del Risorgimento, della Resistenza, troppi italiani d’oggi son capaci di svendersi per far prevalere le proprie divisioni, il proprio egoico tornaconto e — non ultimo — il consueto, atavico, opportunistico clericalismo. Un popolo le cui personalità grandi e grandiose han sempre toccato vette eccelse; ma che non sa — a parte molte lodevoli eccezioni — meritarle, né onorarle, né impararne alcunché.
Un Paese che non apprende mai dalla propria storia: storia unica al mondo; ma anche storia di problemi perpetuamente irrisolti, che passa dalla tragedia alla tragicommedia, fino alla farsa grottesca, oscena, rivoltante.
Nessun Paese odia la propria capitale: l’Italia sì. Anche se la sua capitale si chiama Roma. Anche se un miliardo di esseri umani parla lingue derivate dalla lingua parlata Roma 20 secoli fa. Anche se la Costituzione della Repubblica Romana del 1849 era più avanzata della nostra, scritta nel 1947. Anche se Roma è il fondamento della civiltà occidentale.
Il disprezzo per i romani è ovunque nella Penisola. Anche se i romani “de Roma” (quelli “di sette generazioni”) oggi, a Roma, su tre milioni di residenti, sono una ristrettissima minoranza: a dimostrare che i difetti dei “romani” sono in realtà difetti di tutti gli italiani, che affollano la capitale ingolfandola di autovetture.
Scuola e insegnanti odiati; dalla cultura paludata e dalla “controcultura”. La colpa di ogni male è sempre della scuola. Scrive d’Errico: «Criticano in blocco un corpo docente pubblico e povero, ma capace, soprattutto nelle elementari, di inventare, proprio fra Afragola e Scampia, maestri di strada come Antonio Vece (e non solo)». Vece fu (come l’Autore) tra le figure più eminenti del movimento dei Comitati di Base, che a fine anni ‘80 rivoluzionarono la scuola, donandole speranze, aria pulita, libertà sindacale (ed il maggiore aumento salariale mai visto in Italia per tutti i docenti). Un rinnovamento cui, dal 1992, seguì il cronoprogramma di restaurazione e neoliberismo tuttora in corso, senza più quasi opposizione, in un Paese larva di se stesso.
Esiste, secondo l’Autore, una speranza di ripresa e di rinascita? Certamente: a patto di non lasciare l’Italia agli italioti invasori e di restituirla agli Italiani.
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