“Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo, e andiamo direttamente a domani, credo che tutti accetteremmo di farlo. Ma non è possibile. Oggi noi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità”.
Sono passati 40 anni da quel tragico 16 marzo, ore 9,02, in via Fani a Roma, quando le BR sequestrarono Moro e uccisero i cinque uomini della sua scorta. Una tragedia che si consumò il 9 maggio, col ritrovamento del corpo di Moro in una Renault 4 rossa in via Caetani.
Chi ricorda più quel passaggio della nostra storia?
Profeticamente avvertito dallo stesso statista DC nel suo ultimo intervento alla Camera del 28 febbraio 1978: “Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere“.
Dopo quella tragedia, ricordiamo tutti lo scivolamento della nostra vita politica alla spesa facile, compresa la degenerazione del modo di cercarne il consenso, che porterà a Tangentopoli, alla fine della prima repubblica, ai tribolati ultimi 25 anni, e al trapasso verso la ventilata terza repubblica, come è stata retoricamente invocata dai nuovi vincitori.
Ma non nascerà nessuna nuova fase, se non si saprà rispondere a quell’invito inascoltato di Moro, di una stagione cioè dei doveri, delle responsabilità, accanto a quella dei diritti.
Perché le maggioranze non governano perché hanno ragione, ma hanno ragione di governare perché sono maggioranze. E nessun consenso può essere dato per scontato.
Una speranza, dunque: che la politica torni ad indicare i fini, a guidare i processi, a governare il potere dell’economia finanziaria e della tecnica.
Mentre, anche oggi tutto ruota intorno al cosa bisogna fare per vincere le elezioni, non intorno alle domande sul perché occorra vincere.
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