“La percezione diffusa che l’Italia per la scuola spenda meno degli altri paesi europei non è corretta. La nostra percentuale di spesa pubblica sul PIL è, infatti, allineata alla media europea, per quanto riguarda scuola dell’infanzia, primaria e secondarie”. È quanto dichiara Andrea Gavosto, presidente della Fondazione Agnelli alla luce del recente dossier Le risorse per l’istruzione: luoghi comuni e dati reali, curato dalla ricercatrice Barbara Romano, con elaborazioni su dati della Ragioneria dello Stato, del Ministero dell’Istruzione, di Eurostat e di Ocse.
“Anzi, se guardiamo alla spesa per ogni singolo studente dai 6 ai 15 anni – continua Gavosto – si scopre che l’Italia supera la media europea e paesi come Francia e Spagna. È piuttosto sull’università che spendiamo meno”.
Peraltro la scuola costituirebbe l’unico comparto della Pubblica Amministrazione a vedere crescere in modo
significativo il personale (poco più del 20% nell’ultimo decennio).
“Questi sono dati – commenta il presidente della Fondazione Agnelli – che fanno riflettere. Forse in Italia per la scuola più che spendere poco semmai si è speso male, alla luce dei risultati di apprendimento insoddisfacenti, nelle scuole secondarie nettamente inferiori della media europea, e con enormi divari territoriali e sociali. È un campanello d’allarme per chi governerà. A partire dall’efficacia e dall’efficienza con le quali si sapranno gestire le risorse del PNRR per gli investimenti sulla scuola”.
Sempre il dossier della Fondazione Agnelli chiarisce che negli ultimi dieci anni il numero degli insegnanti italiani della scuola statale (dall’infanzia alla secondaria di II grado, di ruolo e a tempo determinato, incluso i docenti di sostegno) è nell’insieme costantemente aumentato.
Il corpo insegnante è, però, sensibilmente cambiato nella sua composizione interna. Nonostante le grandi immissioni in ruolo della Buona Scuola che li aveva portati a 730mila, sono oggi leggermente diminuiti gli insegnanti di ruolo (poco meno di 700mila), principalmente per via dei pensionamenti; sono invece più che raddoppiati i docenti a tempo determinato, cioè i supplenti: l’anno scorso 225mila, incluso il sostegno, rispetto ai 100mila subito dopo la Buona Scuola.
E soprattutto – precisa il dossier – per rispondere alla forte domanda di inclusione scolastica, sono aumentati gli insegnanti di sostegno. In dieci anni il loro peso sul totale del corpo insegnante è passato dal 13% al 21,5%: oggi sono dunque più di un quinto del totale.
La criticità di questa situazione è quella ben nota: la stragrande maggioranza degli insegnanti di sostegno oggi non è in possesso della specializzazione. Per essere più chiari dieci anni fa per il sostegno venivano impiegati nel 40% dei casi supplenti non specializzati e nel restante 60% dei casi insegnanti di ruolo con specializzazione sul sostegno. Oggi le percentuali sono invertite: in 6 casi su 10 ad affiancare un alunno con disabilità è un insegnante senza preparazione specifica.
E veniamo alla questione degli stipendi degli insegnanti. Stavolta non parliamo di luoghi comuni ma di realtà: la remunerazione dei docenti italiani è davvero inferiore a quella della maggioranza degli altri paesi europei, forse ancora per poco, viene da commentare, a sentire le promesse elettorali dei partiti che vanno tutte nella direzione dell’equiparazione degli stipendi degli insegnanti alle medie europee.
Va notato – leggiamo sul dossier – che mentre nei primi anni di professione la forbice retributiva a sfavore dei nostri
docenti non è enorme (25mila euro circa in Italia, con Francia, Portogallo e Finlandia comunque sotto i 30mila euro, con la Germania, però, nettamente sopra i 50mila euro), la differenza nel corso degli anni di lavoro si accentua sensibilmente.
Il punto è che le retribuzioni dei docenti italiani sono poco dinamiche, in quanto legate completamente al meccanismo di anzianità, senza alcuna progressione di carriera, che in altri paesi porta chi sale di responsabilità a massimi retributivi talvolta molto elevati. E anche in questo caso, pare, la misura sulla formazione incentivata disposta dal DL 36 e dal DL Aiuti bis, dovrebbe dare il via ad un cambio di prospettiva e all’introduzione nel sistema scolastico di una vera e propria carriera docente.
Un altro dato interessante del dossier della Fondazione Agnelli riguarda il contratto di lavoro dei docenti italiani, che quantifica in pratica solo le ore di lezione.
Sebbene, ad esempio, nel caso di un professore di scuola superiore, si conteggino 18 ore alla settimana più un paio di ore per attività di programmazione, aggiornamento, ricevimento dei genitori, quanto alla preparazione delle lezioni e alle tante altre attività non strettamente di lezione, ma decisive per l’efficacia dell’insegnamento, nel contratto non viene fatto alcun riferimento a queste ore di lavoro, al contrario di quasi tutti gli altri paesi, spiega la Fondazione Agnelli
Ricordiamo che tra scuola e casa, gli insegnanti italiani dichiarano di lavorare (dati Ocse Talis 2018, relativi alla secondaria di I grado) 26 ore alla settimana, contro una media europea di 33 ore.
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