Cosa significa per un ragazzo di 19 anni varcare la soglia dei campi di concentramento di Auschwitz e di Birkenau? I luoghi dove il male assoluto ha la stessa faccia dell’inferno e dove la disperazione grida l’assenza di qualsiasi umanità.
Impossibile trovare un senso, scrive Il Fatto Quotidiano, una ragione logica ad una delle più grandi tragedie del Novecento.
Sebastiano Goggia è il presidente della Consulta provinciale degli studenti di Bergamo, la sua carta d’identità dice solamente classe 1997, e il 18 gennaio ha avuto il privilegio di far parte della spedizione di un centinaio di suoi coetanei partiti da Roma alla volta della Polonia: con lui e “E’ stata un’esperienza scioccante”, racconta emozionato un alunno di un liceo di Bergamo in viaggio con i suoi compagni di classe e con la ministra all’Istruzione Stefania Giannini e la presidente della Camera Laura Boldrini in Polonia, nei luoghi della Shoah.
“Abbiamo iniziato da Birkenau, un campo immenso, una distesa di niente che con la neve faceva ancora più impressione: le capanne, il boschetto dietro il quale si nascondevano camere a gas e forni. E poi il freddo che ti penetra nei vestiti non può non farti pensare a quanta gente deve essere morta con indosso solo un pigiama di cotone e degli zoccoli”.
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“Vedere persone di 85-90 anni piangere e avere ancora stampati in mente episodi di quando ne avevano 13 è devastante: un testimone di Rodi ha raccontato un particolare che mi ha sconvolto”, dice il ragazzo a Il Fatto, “ovvero che gli ebrei sui treni venivano chiamati dai tedeschi ‘morti in vacanza’. Una volta saliti sui convogli non erano già più persone e come tali venivano trattati nei campi: non ci si può rendere conto del disprezzo, di come si sia arrivati a tanto e di come degli uomini con un briciolo di senno abbiano potuto agire in quei modi brutali”.
“L’ingresso nelle docce mi ha provocato un colpo al cuore – ammette – non ero pronto psicologicamente: ho pensato alle persone che vi entravano senza sapere di andare incontro alla morte e in quel momento tutto ciò che dai libri di storia mi sembrava lontano nel tempo e nello spazio ce l’avevo attorno. Quel momento ha cambiato tutto, c’è come un peso che grava su quel luogo. Il passaggio seguente è stata la teca delle valigie: erano migliaia, era come dare un volto e un nome a ogni vittima. Ti scontri con la storia, con un luogo che è esso stesso memoria”.
L’alunno confida di non essere riuscito a parlare per un giorno intero dopo la visita e giura che il viaggio in Polonia l’ha cambiato per sempre e che l’esperienza l’ha investito di una missione: “La generazione di chi ha vissuto quei momenti e li può raccontare purtroppo sta finendo: io ho avuto il privilegio di ascoltare dalla voce dei sopravvissuti, mi sento in dovere di farmi portatore della memoria verso chi non avrà la stessa possibilità e anche trasmettendo tutto ciò ad uno solo dei miei coetanei o a qualcuno di più giovane avrò raggiunto il mio obiettivo”.
Un’idea che, in silenzio, è nata lasciandosi alle spalle Auschwitz e il cancello sopra il quale compare la scritta “Arbeit macht frei”: un passo fuori dalla storia che gli ha messo tra le mani un testimone da stringere forte tra le mani e da non lasciare mai cadere per nessun motivo.
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