Ha fatto molto scalpore l’appello dei 600 docenti universitari sulle carenze nella lingua italiana dei nostri ragazzi.
Gli stessi rilievi che le scuole superiori a volte scaricano sulle scuole del primo ciclo, perché non sono/sarebbero garantiti i fondamentali, al momento del passaggio alle scuole superiori. Cose note e risapute, dunque.
Anche se, è giusto che lo dica, la cosa che a me fa ancora più scandalo è incontrare errori nei docenti, anche in quelli di lettere. Con studenti che, in alcuni casi, sono intervenuti in classe a correggere il loro professore. Con l’evidente imbarazzo.
Due sono gli ordini di problemi, come si è dunque intuito.
Da un lato il diverso ruolo oggi della scuola e dei nostri docenti.
In passato, il docente era il riferimento culturale, direttivo, selettivo, per i pochi che, intellettualisticamente, sapevano. Dunque, potrei aggiungere, quelli che dovevano o avrebbero dovuto sentirsi in diritto…
Oggi, con la scuola superiore per tutti, la diversità dei ragazzi, la crisi delle famiglie, l’emergere di esigenze nuove in una società che prende più in considerazione gli individui, i bisogni, gli sbocchi occupazionali, le ambizioni delle famiglie: si sono moltiplicate, in altri termini, le aspettative nei confronti della scuola e complicato il nostro lavoro (hard e soft skills).
Per cui, faccio fatica a considerare l’appello dei 600 docenti universitari oltre a ciò che il buon senso ci dice. Perché oggi non contano solo i risultati nozionistici, pur importanti quanto si vuole, ma contano i risultati in relazione ai processi, per dare ai nostri ragazzi quella apertura mentale grazie alla quale solo potranno, nella vita, rapportarsi a complessità sempre diverse.
Facile parlare, cioè, di fondamentali da assicurare, in una preparazione di base, se poi sappiamo che questi non sono tutto, nei percorsi culturali e scolastici.
Dall’altro, vi è il tema della scelta o selezione dei migliori docenti. Perché la vera “buona scola” la fanno le persone, con le loro passioni, competenze, sensibilità. E le modalità, sino ad oggi seguite, di questa scelta/selezione non è che siano una garanzia, per quei risultati di apprendimento che tutti invocano.
Se in Veneto, tanto per capirci, lo scorso anno non hanno superato l’anno di prova in una quarantina; se i concorsi regionali hanno prodotto livelli diversi di selezione, con i trasferimenti interregionali che hanno colpito il cuore pulsante della scuola, dal punto di vista dell’efficacia, assieme alla qualità dei docenti, cioè la continuità didattica, è difficile che, al di là della buona volontà, si possano garantire certi livelli di preparazione di base per i nostri ragazzi. Difficile. Perché la scuola, soprattutto, è una realtà che vive, anche oggi, senza una governance, una regia, che sappia rispondere, con o senza legge 107, ai veri problemi aperti.
La stabilizzazione di 90.000 precari ed i 63.000 posti messi a concorso non hanno, cioè, risolto le magagne che tutti conosciamo.
In passato si era parlato a lungo di fine delle assunzioni che non passano attraverso una seria verifica delle reali competenze dei docenti. Invece… Nei concorsi, addirittura, oltre la metà dei partecipanti non ha superato la prova scritta. Con commissari a questi concorsi scelti senza nessun criterio qualitativo. Un non-senso, pasticci su pasticci. Gli stessi che poi ritroviamo nei risultati degli esami di maturità: 934 cento e lode in Puglia contro i 276 del Veneto, cioè la regione che ha, dai dati Invalsi e Ocse-Pisa, ben migliori risultati.
Se, dunque, oltre la metà per questi concorsi non ha superato gli scritti, cosa sarebbe successo se la stessa cosa fosse stata fatta per i 90.000 stabilizzati dalla Buona Scuola? E le università non hanno niente di cui pentirsi, visti i risultati di questi concorsi?
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