Politica scolastica

Lo sciopero è inutile? Allora perché i governi cercano di impedirlo?

I nostri lettori già lo sanno: l’ARAN vuole ottenere dai Sindacati “maggiormente” rappresentativi che il tetto massimo annuale degli scioperi del personale docente (otto per anno scolastico) sia riferito non al singolo insegnante ma alla classe: in tal modo, superata la soglia, il divieto di sciopero si estenderebbe tutti i docenti che prestano servizio in quella classe stessa dove per otto giorni anche un solo insegnante abbia scioperato. Altra richiesta dell’ARAN è che i docenti siano obbligati ad annunciare in anticipo la propria intenzione di scioperare.

La controparte governativa, insomma, pretende che lo sciopero diventi sempre più un’arma spuntata: ancor peggio di quanto prevede la Legge “antisciopero” 146 del 1990, rafforzata dalla legge 83 del 2000. Ciò smentisce quanti mormorano che gli scioperi degli insegnanti non siano affatto temuti dal Potere (mormorio tipico — per pura coincidenza — soprattutto di quei “leoni da tastiera” che non scioperano mai). Né mai è stato vero che gli scioperi siano inutili per i lavoratori (e quindi anche per i docenti): come ben sa chi abbia studiato un minimo di storia, non solo contemporanea, ma persino antica.

Lo sciopero non funziona unicamente quando non viene praticato. Lo sapevano bene i lavoratori che sfidarono gli scherani nazisti e fascisti durante la Resistenza italiana; la quale cominciò proprio con gli scioperi. Eppure quei lavoratori rischiavano persino la propria incolumità fisica, scioperando: non solo una trattenuta sullo stipendio.

Sebbene scioperare fosse pericolosissimo…

La primavera non voleva saperne di nascere, in quella fredda alba del primo marzo 1944. Torino era ancora semiaddormentata, quando gli operai della FIAT entrarono in sciopero, dopo un lungo periodo di rivendicazioni e di tensione. Il 28 febbraio Paolo Zerbino, il capo della provincia di Torino, aveva cercato di correre ai ripari per evitare che la situazione degenerasse, ordinando che fossero date immediatamente le ferie a quasi tutti gli operai, per tenerli buoni ed evitare lo sciopero. Ma tutto era stato inutile.

Zerbino (1905-1945), fascista della prima ora, era un repubblichino convinto. Laureato in giurisprudenza, sarebbe poi diventato, due mesi dopo, sottosegretario agli Interni della Repubblichina di Salò, lo Stato-fantoccio nelle mani di Hitler e dei suoi scagnozzi.

Chi minaccia ha paura

Il 2 marzo scioperarono anche gli operai delle industrie CEAT, Rasetti, Viberti, Zenith: ben 70.000 operai incrociarono le braccia. Zerbino, furioso, avvertì gli scioperanti che stavano rischiando grosso: minacciò di chiudere gli stabilimenti, mettendo sul lastrico decine di migliaia di famiglie già provate dalla fame, dalla guerra, dagli stenti. Minacciò di non pagare gli stipendi maturati; di licenziare tutti gli scioperati; di arruolarli a forza tra i repubblichini; di consegnarli ai nazisti per la successiva deportazione in Germania come manodopera schiavile nei lager. Minacce che furono prese dagli operai per quello che erano: un segno di debolezza e di paura, di fronte ad una mobilitazione quale non si era mai vista prima d’allora nell’Europa occupata dai nazisti. Gli oppressori temevano di non poter più controllare il malcontento. Ed avevano ragione. Gli operai non erano più disposti a sostenere i nazifascisti con il proprio lavoro. Lo sciopero aveva ormai una precisa connotazione politica. Una connotazione antifascista.

Contro gli scioperanti, minacce e violenza

Il 3 marzo le forze della repressione si misero in moto. Milizie fasciste attaccarono gli scioperanti dei Grandi Motori FIAT che uscivano dalla manifattura. Poco dopo, però, entrarono in azione i partigiani. Le “Brigate Garibaldi” ordinarono l’astensione dal lavoro nella Valsesia, mentre altri partigiani in Val d’Aosta sabotavano installazioni industriali e linee elettriche per rinforzare lo sciopero bloccando la produzione. Tra Torino e le Alpi i gruppi partigiani tentarono di provocare un’interruzione nelle comunicazioni tra la città della Mole e il territorio di Pinerolo, la Val Sangone, la Val di Lanzo, la Val di Susa.

Presi dal panico, i vertici del governo repubblichino comandarono ai militari di piantonare tutte le manifatture. Precauzione inutile e controproducente. Infatti gli operai continuarono gli scioperi e le proteste per altri cinque giorni, incuranti dei rischi. Solo l’8 marzo il “Comitato di Agitazione” decise di riprendere l’attività lavorativa. In otto giorni avevano scioperato da un minimo di metà dei lavoratori alla totalità intera di essi.

Sfidarono persino la furia di Hitler

Hitler in persona, furioso, ordinò la repressione. Lo sciopero aveva avuto un chiaro significato politico, essendo stato disposto ed organizzato dal Partito Comunista d’Italia (allora clandestino da vent’anni almeno) e realizzato dai lavoratori non soltanto per pane e salario, ma esplicitamente per far capire ai nazifascisti che gli operai non intendevano più servirli.

Mussolini si diede molto da fare per compiacere il suo protettore. Tuttavia i risultati furono scarsi, e la repressione funzionò solo in parte. L’ordine del Führer era stato perentorio: deportare in Germania almeno un quinto di coloro che avevano scioperato. In tutto (come attestano fonti della RSI stessa), avevano scioperato 208.549 operai. 32.600 avevano scioperato per tre giorni solo a Torino. A Milano, in cinque giorni, ben 119.000. I Tedeschi però sostenevano che i lavoratori in lotta erano stati molti di più (almeno 350.000), accusando implicitamente i Repubblichini di voler nascondere o edulcorare la realtà dei fatti. Secondo i nazisti, di conseguenza, si sarebbero dovuti deportare nei lager almeno 70.000 lavoratori.

E oggi?

Erano diversi gli Italiani di allora? Forse sì. O forse l’essersi bruscamente risvegliati — dopo i sogni di gloria della propaganda fascista — in un Paese distrutto, aveva fatto loro capire di esser stati ingannati per un ventennio. E ciò dava la forza per sfidare un pericolo mostruoso, al cui confronto (grazie a loro) le paure di oggi fanno ridere.

Vedremo in un prossimo articolo quali furono gli sviluppi della vicenda.

Alvaro Belardinelli

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