Chi conosce o ha conosciuto Vittorio Sgarbi non si stupisce delle sue performance, chiamiamole così, che da oltre trent’anni segnano la sua storia personale.
Sa che lui è fatto così, e non si preoccupa minimamente se, di volta in volta, assume comportamenti fuori dalle righe.
Quasi a dire che a Vittorio è tutto permesso, mentre noi umani nemmeno penseremmo o ci permetteremmo di insultare o di utilizzare certe espressioni.
Lui è fatto così.
L’ho conosciuto negli anni novanta, quando, sull’onda del successo degli “Sgarbi quotidiani” su Canale 5, dopo la fama raggiunta col Costanzo Show, approdò alla presidenza della commissione cultura della Camera dei Deputati.
E da presidente mi accorsi da subito che esistono, in realtà, due Vittorio: il primo, quello fuori scena, che è simpatico, rispettoso, coinvolgente; l’altro, quando si accendeva la luce rossa, cioè il personaggio. Ed il personaggio poi lo vedevi quando si circondava di belle ragazze, o signore della Roma-bene. Ricordo due occasioni quando lo seguii, su suo invito, in visite private, perché lui amava stimare le opere d’arte delle collezioni private. Pensando, poi, alla sua casa-museo in costruzione a Ro Ferrarese, nella quale amava raccogliere quante più opere poteva.
Ricordo alcuni riferimenti alla sua famiglia, al padre Giuseppe in particolare, di cui pubblicò, con la sorella Elisabetta, un volume autobiografico qualche tempo fa.
La sua esuberanza, chiamiamola così, quella caratteristica che l’ha inevitabilmente imposto all’attenzione di tutti, incarna storicamente l’idea estetica della vita, cioè la vita quasi come un’opera d’arte. Nei termini di una continua autocreazione.
In realtà, forse, un succedersi di maschere, con la vis polemica come forza d’urto.
Resta infine la domanda che tutti si fanno: come sia possibile che una mente così raffinata scada di continuo in volgarità diffuse.
Come sia possibile, poi, quel presenzialismo al limite del maniacale, perenne candidato a tutto, con mille incarichi. Pensiamo, da ultimo, alle provinciali trentine.
A Bassano lo conosciamo bene, per la presidenza del Canova di Possagno, e per la recente Milanesiana animata dalla sorella Elisabetta, vera anima della Nave di Teseo, casa editrice che ha fondato una volta che la Mondadori di Marina Berlusconi si prese la Bompiani, dove Elisabetta lavorava.
Ricordo quando spiegò il suo esordio politico con i liberali, ma senza quell’aplomb che li contraddistingueva, legato invece a quel liberismo esistenziale che anche nei giorni scorsi gli ha fatto dire che un limite alla libertà di espressione, comprese le volgarità, sarebbe “fascismo”, dimenticando che libertà non è, come dicevano i classici, “liberum arbitrium indifferentiae”.
Soprattutto quando viene meno il rispetto reciproco, anzitutto nel linguaggio.
Come sia possibile, dunque, la coesistenza di raffinatezza culturale e caduta continua nella superficiale volgarità? Esempi nella storia culturale ve ne sono, e non dobbiamo meravigliarci.
Fare di se stessi un’opera d’arte, dicevo, questo il suo sentiero di vita.
A questo punto, la domanda nasce spontanea: noi siamo la vita che facciamo?
E i nostri comportamenti sono forse sintomi o proiezioni anche, a volte, dei fantasmi che ci portiamo dentro?
C’è un nesso tra l’arte di se stessi e la psicanalisi, come già Freud aveva indicato?
La vita è davvero un mistero.
Un mistero che, lo ricordo bene, trasfigurava in Vittorio la persona nel personaggio quando si accendeva la lucetta rossa.
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