Lo smartphone in classe? Neanche se ne parla. I professori nella stragrande maggioranza non ne vogliono sapere, cosicché la proposta del sottosegretario all’istruzione, Davide Faraone, sembra più un’uscita estemporanea, dettata dalle imminenti ferie, che una realtà fattibile. Infatti in poco meno di cinque giorni il nostro sondaggio, che ha avuto circa 1800 voti, è stato più che chiaro: questa proposta non s’ha d’applicare: 81% No e solo il 19% Sì.
Ma cosa aveva detto Faraone? Siccome il governo sta spendendo un sacco di soldi per potenziare le reti internet delle scuole e tutto il sistema informatico, è impensabile che insieme alla lavagna luminosa, i tablet, i computer non si usino anche gli smartphone in classe. Un uso governato dai prof, precisa il sottosegretario, altrimenti siamo nel far west.
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Non si capisce tuttavia come possa essere governato il fenomeno, se questi ordigni della comunicazione rimangano sempre aperti e quindi anche alle telefonate “selvagge”, agli Sms, ai WhatsApp, ai FaceTime e così via.
Sulla stessa lunghezza d’onda del sottosegretario, il ministro del lavoro Poletti che dice: “Come tutte le cose hanno bisogno di una propria maturazione, ma questi strumenti devono essere pensati e governati”.
E appunto “pensati”, prima di buttare giù proposte che sembrerebbero innovative, costruttive e colme di futuri frutti didattici, ma con cui si dimostra ancora una volta che certi ministeri, come quelli dell’istruzione, dovrebbero essere affidati a “politici” che ne sappiano qualcosa di istruzione e formazione, che siano passati almeno attraverso le cosiddette “scuole di frontiera”, le scuole delle periferie urbane, quelle dove è possibile misurare la capacità, la sapienza, la disponibilità, la bravura, in una sola parola, dei docenti a contatto ogni giorni con quei ragazzi che Pasolini definiva “di vita”.
Esternare dall’alto, come quella sulla opportunità delle occupazioni della scuole, appare più come una esercitazione di ideologia liberale che come una effettiva prassi liberale.
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