Maria Antonietta Ferraloro, saggista: “Tomasi di Lampedusa e i luoghi del Gattopardo”, Pacini Editore, e scrittrice, si sofferma sulla scarsa considerazione che in Italia, contrariamente al resto dell’Europa, viene data ai libri e alla lettura dei libri, tanto che sono molto le librerie costrette a chiudere e gli editori a contrarsi. Eppure la scuola potrebbe essere quello specchio d’acqua dentro cui i libri diventano immagine riflessa dell’intero mondo che ci circonda. (P.A.)
Vivo l’insegnamento come un privilegio. Non saprei fare a meno dei miei allievi. Il puzzle ancora irrisolto della loro misteriosa esistenza -uno spazio bianco di meraviglia e incanto dove tutto, ancora, può e deve accadere-, da senso alla mia piccola storia personale. La loro curiosità, le loro risa, le loro trepidazioni sono una bussola essenziale nella mia quotidianità.
Insegno ormai da tempo. Forse è per questo che accolgo con un crescente senso di allarme le trasformazioni che la politica ha imposto alla scuola italiana nell’ultimo ventennio. Non ho mai accettato la fine di quello straordinario esperimento didattico rappresentato dai moduli, che aveva permesso alla nostra scuola primaria di eccellere nel mondo. Ho accolto con un disagio crescente la riduzione delle ore di materie letterarie nella secondaria di primo grado. Giudico con severità gli attacchi contro la lingua greca e latina, e il disegno confuso da cui dovrebbe prendere l’abbrivio la riorganizzazione dei nostri Licei classici. Tuttavia, conosco abbastanza i ragazzi per sapere che sono migliori di questa scuola “nuova”, più simile a un’azienda che a una palestra di vita, immaginata per loro da politici poco lungimiranti e da taluni savi che probabilmente non sono mai entrati in una classe.
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Il presente in cui i nostri figli e allievi sono chiamati a vivere è fonte di grande preoccupazione.
Abitiamo una contemporaneità scossa da violenze inaudite. Perennemente interconnessa, ma afflitta da una solitudine cronica. Dominata dall’egoismo, dall’indifferenza, dalla superficialità e dall’avidità. Lo psicanalista junghiano Recalcati, in un saggio di qualche anno fa intitolato Cosa resta del padre? (Milano, 2011) si soffermava sull’incapacità dell’uomo contemporaneo di fronteggiare con gli strumenti tradizionali «l’angoscia dell’esistere» che alberga in ogni cuore umano. Un tempo, per superarla, bastava ricorrere alla autorevolezza del pater familias o cercare rifugio in quel sentimento religioso insito in ciascuno di noi che nulla ha in comune con la religione-chiesa, eletta ormai a roccaforte dai fanatismi fondamentalisti.
Nella società attuale, invece, l’antidoto a ogni nostra inquietudine sembra essere «una consumazione che non conosce più limiti». Un consumismo feroce che ci obbliga a volere tutto e subito, tutto e immediatamente; che non ci permette più di fare una cernita tra ciò che è necessario e ciò che invece è superfluo; che vorrebbe bandire dalla nostra vita il senso del lecito; che ci obbliga a rifiutare il percorso –assolutamente irrinunciabile- del desiderio.
Il tributo che ci viene richiesto è molto alto.
Quasi senza accorgercene, accettiamo di tramutarci in «sudditi-consumatori» ottusi e meticolosi. La coazione irrefrenabile all’acquisto indiscriminato, l’ansia di tenere il passo con le novità che invadono, sommergono e soffocano le nostre esistenze, ci portano a rinunciare alla libertà. Soprattutto, come notava Bauman già in Vite di scarto (Roma-Bari, 2007) «Per essere ammessi nella società dei consumatori, non basta la promessa di essere consumatori diligenti e di rivendicarne lo status. Nella società dei consumatori non c’è posto per i consumatori difettosi, incompetenti, insoddisfatti». Nel mondo attuale, insomma, molte esistenze, specie quelle dei più deboli, vengono equiparate a oggetti inutilizzabili, inutili, inservibili; o, peggio ancora, fuorimoda. Basta poco perché si trasformino, per l’appunto, in rifiuti sgradevoli, in «vite di scarto».
Cosa possono fare i libri in un contesto così tragico?
Possono fare molto.
La costruzione del sé; e dell’altro da sé, ovvero di coloro che chiameremo amici, amanti o nemici e con cui dovremmo relazionarci durante il nostro breve transito terreno; la progettazione e realizzazione di un futuro sostenibile, passano proprio attraverso le parole sapienti custodite nei libri.
Le grandi narrazioni, le melodie dei versi immortali, persino le riflessioni dei saggisti più attenti ci rivelano «che abitiamo la terra non solo prosasticamente -sottomessi all’utilità e alla funzionalità- ma anche poeticamente, votati all’ammirazione, all’amore, e all’estasi» (Morin, La testa ben fatta, Milano, 2013). Mentre ci impediscono di piegarci alle logiche del mercato, ci consentono di guardare oltre il paesaggio ingannevole che «una miope contemplazione del presente» restituisce al nostro sguardo (Nussbaum, Non per profitto, Bologna, 2010).
I libri, insomma ci costringono a prendere atto che la liscia superfice riflettente di un mondo solo apparentemente bellissimo e rutilante assomiglia sempre di più allo specchio d’acqua su cui Narciso si affacciò trepidante, convinto di essere riuscito, finalmente, a riconciliarsi con se stesso, e dove trovò invece la morte.
Non si può abitare questa Terra in maniera inconsapevole. E «nulla difende l’essere vivente» contro la mercantilizzazione della vita, gli isterismi della violenza, «la stupidità dei pregiudizi, del razzismo, della xenofobia, delle ottusità […] del settarismo religioso o politico, […] meglio dell’interrotta costante che appare sempre nella grande letteratura: l’uguaglianza essenziale di uomini e donne in tutte le latitudini e l’ingiustizia rappresentata di stabilire tra loro forme di discriminazione, dipendenza, sfruttamento.» (Vargas Llosa, È pensabile un mondo moderno senza romanzo, Torino, 2001).
Le biblioteche, le librerie, e soprattutto la scuola, sono presìdi essenziali del nostro futuro.
I luoghi in cui le giovani generazioni apprendono, con l’aiuto dei maestri e dei libri, a riconoscere e a sciogliere i nodi di complessità del reale e a prendersi cura delle ferite del mondo. Dovremmo imparare a difenderli con maggiore vigore.
Maria Antonietta Ferraloro
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