Lo Stato è un cattivo padrone e tratta piuttosto male i suoi dipendenti. Dal 2008 ad oggi ha fatto cassa risparmiando in ogni modo sulla loro pelle e agendo principalmente attraverso il blocco dei contratti, degli scatti di anzianità, del turn-over, dell’allungamento dell’età pensionabile e del differimento del TFR che, ad oggi, viene percepito dai dipendenti pubblici a rate: la prima, per molti, arriva 27 mesi dopo l’uscita dal lavoro, e tutto fila liscio.
«La pubblica amministrazione negli ultimi dieci anni con il blocco del turnover ha vissuto un grande impoverimento, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. L’età media dei dipendenti pubblici sfiora i 50 anni: 6 anni e mezzo in più rispetto al 2001. Attualmente il personale con 55 anni e oltre costituisce il 36,7% del totale e quello con meno di 35 anni è ridotto a circa il 10%, meno della metà rispetto al 2001. I nostri uffici hanno visto un impoverimento di circa 300mila persone. L’Italia registra il dato più basso nel rapporto tra numero di residenti e lavoratori pubblici: il 5,6% contro l’8,4% della Francia, il 7,8% dell’Inghilterra e il 6,8% della Spagna. La carenza degli organici è una realtà con cui molte amministrazioni, soprattutto quelle più piccole, devono fare i conti tutti i giorni». Ma chi disegna questo quadro? Un feroce critico del governo in carica? No, Paolo Zangrillo, attuale ministro per la pubblica amministrazione!
Tutto vero, peccato che sinora egli abbia rimediato attraverso l’assunzione di tremila persone, due terzi delle quali per il comparto difesa e sicurezza.
I dipendenti pubblici hanno avuto tra il 2009 e il 2018 un blocco contrattuale che li ha impoveriti; gli ultimi rinnovi non hanno cambiato la situazione. Nell’arco degli ultimi dieci anni, anche il confronto con l’incremento di reddito dei lavoratori privati è impietoso: + 4,9% per i pubblici, + 11,6% per i privati (fonte: Rapporto Aran).
La prima rivendicazione dei lavoratori pubblici, quindi, riguarda il reddito e la necessità di forti aumenti stipendiali. Bisogna inoltre ridurre al minimo il precariato; basti pensare che, nel comparto scuola, i precari costituiscono circa il 25% del personale docente (225.000 precari su 900.000 docenti); simile la situazione del personale ATA. Ci si deve battere per un’età pensionabile più bassa, soprattutto nei settori a rischio burnout, per pensioni eque e per trattamenti non discriminatori.
Infine, è necessario contrastare con forza un’ideologia meritocratica che non premia di certo i migliori ma i più proni agli ordini che arrivano dall’alto. Del resto, se il merito contasse davvero qualcosa avremmo i ministri che abbiamo?
E Matteo Salvini, che in vita sua non ha mai fatto un lavoro dipendente, prima di condannare gli scioperi “del venerdì” si interroghi su due aspetti.
Il primo: lo sciopero costa al lavoratore una giornata di retribuzione e quindi le organizzazioni che rappresentano i lavoratori possono scegliere la giornata che appare loro più opportuna: il venerdì, nel caso di manifestazioni nazionali, consente ai lavoratori di partecipare anche se non abitano nella città sede della manifestazione. Ma Salvini non è mai stato un lavoratore e quindi non ha mai scioperato.
Il secondo: visto che il lavoratore dipendente italiano alla fine del 2022 ha visto calare il suo salario reale (già basso) del 7,5% rispetto al periodo precedente la pandemia (contro una media Ocse del 2,2%) il venerdì “libero per sciopero” ben difficilmente verrà usato per un fine settimana al mare o in montagna. Ci pensi, il ministro Salvini – un governo che non rispetti i suoi cittadini ha i piedi d’argilla.
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