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Lo Zarathustra di Nietzsche tra poesia e filosofia nel rapporto con Goethe

Fra gli aspetti più controversi e dibattuti dell’intera opera di Friedrich Nietzsche, viene quasi sempre rilevata la scelta del filosofo di scrivere il “Così parlò Zarathustra” in forma poetica. 

Non era mai successo infatti che per fare fi­losofia ve­nisse usato un genere letterario che appartiene alla sfera dell’arte, e da adottarlo con tanta convinzione da indurre lo stesso autore ad affermare la sua superiorità, “nel vigore e nella virilità della lingua”, nei confronti dello stesso Wolfgang Goethe.

Tuttavia, proprio questo richiamo all’autore del Faust, il continuo rifarsi alle sue opere, riecheggiandone an­che il titolo di un ditirambo, “Suleika”, induce a una rifles­sione, sia in riferimento a quella scelta e sia in ri­ferimento alla teorizzazione dell'”Oltreuomo”.

Essa origina da un passo dell’ECCE HOMO, in cui Nietzsche afferma che il poeta è colui che crea la verità, riferendosi al vate della poesia greca, all’aedo, protetto dalla cetra dalle sette corde che è simile all’arco di Apollo. Il poeta è dunque un arciere e la sua canzone una freccia: non vibra la corda dell’arco come le corde della cetra? E non uccide la cetra l’anima come l’arco il corpo? 

La scelta poetica di Nietzsche nello Zarathustra ha forse questa doppia connotazione: dare gioia e uccidere, incantare e costringere a pensare, conoscere il vero e annichilire. Poetare e filoso­fare non apparirebbero più, nella concezione nicciana, polarità diverse, mondi separati, biparti­zioni “romantiche” della comprensione dell’uomo, ma unità per la sua comprensione.

D’altra parte chi meglio di lui conosceva le sotti­gliezze che celavano i miti classici? E chi più di lui disprezzava il conformismo e le sicure classificazioni borghesi, nonché la suddivisione, anch’essa borghese, fra le scienze umane? 

Inoltre ogni grande poeta ha una sua “Weltanschauung” e una sua filosofia, per cui in Nietzsche sarebbe più opportuno indagare l’artista che il filosofo, l’uomo che ha fede più nell’azione dell’Oltreuomo che nel suo “verbo” e la sua “parola”, quella che Mefistofele vuole scritta col sangue per comprare l’anima di Faust. 

In principio dun­que, come per Goethe anche per Nietzsche, non fu il verbo ma l’azione.

E partendo proprio da questa altra considerazione, ci sembra che Zarathustra sia molto più vicino a Faust che all’Oltreuomo tramandato dalla filosofia, in dissidio aperto con le “sovrastrutture” metafisiche. 

Infatti è Faust che si getta nella mischia della vita per ritrovarne l’essenza e il significato, fino ad an­dare all’estrema rovina, all’inferno, verso un nichili­smo consapevole, ma che gli consente tuttavia la sa­pienza! E prima di firmare il patto col diavolo abiura la Pazienza, che è l’accettazione della volontà di Dio, per accogliere l’azione, rompendo i le­gami col passato e col cristianesimo; ma per accettare pure di rinasce trasfigurato, “Übermensch”, in un altro mondo, quello di Auerbach e della notte classica Valpurga.

E chi più di Zarathustra ha predicato la “morte di Dio”, abiurando la Sua volontà, per consentire all’uomo del passato una nuova rinascita?

Se Faust ha distrutto il vecchio mondo nel suo petto di Titano, attorno a lui altri mondi Mefistofele gli crea, con la complicità della stessa arte di Goethe, così  come era forse nelle intenzioni di Nietzsche: creare un mondo in cui l’Oltreuomo, con la sua complicità arti­stica, fosse un novello demiurgo, creatore di valori nuovi in cui l’abbattere il passato desse l’avvio alla rigenerazione e all’eterno ritorno.

Un eterno ritorno che Nietzsche non ha mai spiegato a fondo, ma che è  stato tuttavia il punto nodale dell’intero Zarathustra e il momento della sua più alta e intensa poesia. 

Pensiamo quindi che se Faust cavalca il tempo in groppa a Mefistofele, Zarathustra invece lo percepisce sola­mente nelle “visioni” e nella “convalescenza”; e se alla fine del poema l’oltreuomo goethiano salva la sua anima, e con essa la certezza della rinascita biblica, Zarathustra non ha altra più coerente scelta di conti­nuare a rinnegarsi come Oltreuomo per potere rinascere “fanciullo”, assolutamente “puro”, assolutamente “amorale”, assolutamente libero.

In quest’ottica Nietzsche supera la paura del “Quia” dantesco che è stato fatto proprio alla fine anche da Goethe, il quale non spinge “oltre” ogni estremo limite il suo Faust, ma lo affida al perdono di Dio. 

Zarathustra invece affida solo all’uomo la sua stessa salvezza e alle sue capacità creative il suo essere im­mortale, il suo ritornare eternamente tramite la sua “ardente volontà di potenza” che è potere nel futuro, potere della terra che dà la vita.

Se non si legge infatti la “volontà di potenza” come volontà di “potere” ma come volontà di spingersi nella crea­zione del futuro, l’oltreuomo potrà recuperare il pas­sato rigenerandolo dalla sua stessa distruzione.

Pasquale Almirante

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