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L’orefice di Grinzane e l’assassino di Giulia

La banalizzazione del crimine. Mi riferisco a due episodi. La condanna a 17 anni di carcere all’orefice di Grinzane Cavour (Cuneo), Mario Roggero, ed una frase equivoca pronunciata, durante l’omelia per i funerali di Giulia Cecchettin, dal vescovo di Padova, mons. Claudio Cipolla.

L’orefice di Grinzane. È evidente, che non si sia limitato alla difesa ma abbia compiuto un gesto di vendetta. Nel video, lo si vede rincorrere i due criminali, in fuga con la refurtiva, e sparare contro di loro, uccidendoli. Ma, noi che avremmo fatto al suo posto? Avevano rapinato altre volte il suo negozio, gli avevano puntato una pistola sulla tempia, gli avevano svuotato gli armadietti… Pretendere che potesse controllarsi, restando freddo, è come chiedere al primo passante che incontriamo di saltare quattro metri senza pertica. Non importa che la sentenza sia tecnicamente corretta. Senza dubbio è oltremodo disumana. È proprio il caso di ‘Summum jus, summa injuria”. Si dirà che i giudici miravano ad evitare il Far west sociale, scoraggiando, per il futuro, gesti impulsivi di difesa personale. Ma, in questo modo ci hanno regalato un’immagine grottesca della giustizia. Una divinità impassibile (ed ottusa) che castiga la vittima, con la prigione ed il versamento di quattrocentomila euro, premiando l’aggressore. Può darsi che molti negozianti, in avvenire, rinuncino a difendersi. Oppure ricorreranno alla polizia privata. Ma è certo che, da oggi, i criminali si sentiranno incoraggiati. Magari, si partiranno da oltre i confini per svaligiare i nostri negozi.

Il vescovo di Padova. Durante le esequie di Giulia, il prelato, dopo aver chiesto al Signore di concedere ai congiunti della ragazza, la forza necessaria ad affrontare il terribile momento, ha proseguito domandando a Dio di “concedere la pace del cuore” all’assassino. Così, semplicemente, senza alcuna argomentazione esplicativa. Non voglio suggerire le parole ad un vescovo. Però, magari, avrebbe potuto dire qualcosa di questo tipo: “Signore, concedi al giovane Filippo la grazia di intraprendere il doloroso itinerario del pentimento e dell’espiazione, affinché possa emendare sulla terra il suo tremendo delitto e presentarsi, un giorno, dinanzi a te con l’anima purificata”. No. Detto in quel modo, sembrava quasi che l’assoluzione da parte di Dio fosse qualcosa di automatico. A prescindere dall’atteggiamento interiore del colpevole.

Ho notato che spesso il perdono è presentato, anche dagli uomini di Chiesa, come un ‘dovere’, un ‘atto dovuto’ da chi viene offeso, e non come un atto eroico, un traguardo difficile, tutt’altro che scontato. Così, anche nella saggezza può nascondersi un atteggiamento disumano. Ma poniamoci, un attimo, nello stato d’animo del padre di Giulia, o di chiunque si trovi dinanzi al cadavere di una persona cara brutalmente uccisa. Quest’uomo, con infiniti sforzi di elaborazione interiore, riesce – se ci riesce – a risalire due gradoni: primo, l’azzeramento del rancore; secondo, la riapertura del cuore, ancora lacerato, a chi glie l’ha trafitto. Uno sforzo titanico, implicito nell’etimo stesso della parola ‘perdono’ che proviene da ‘iper donum’, cioè ‘dono oltre ogni misura’.

Che tristezza. Se nel caso dell’orefice di Grinzane, viene banalizzato il crimine, nel caso del vescovo di Padova viene banalizzato il lungo e doloroso percorso di coscientizzazione, di pentimento, di riparazione. Ma ci rendiamo conto?

Ad un uomo qualunque non basta l’intera esistenza per armonizzare la propria coscienza di fronte a tutti gli errori compiuti nella vita. Ed un Filippo Turetta può riconquistare la pace interiore grazie ad una semplice invocazione. Senza arrampicarsi, per un’intera vita, sulle balze pietrose dell’angoscia. Ad Alessandro Sperelli, l’assassino di santa Maria Goretti, (e fu meno brutale di Filippo!) furono necessari 30 anni di carcere (abbreviati a 27 per buona condotta) oltre ad un doloroso travaglio di pentimento, culminato nel pianto irrefrenabile della notte di Natale del 1934, quando Alessandro poté abbracciare Assunta, madre della sua vittima: “Mi perdonate, Assunta?”. “Ti ha perdonato Marietta! T’ha perdonato Dio! Vuoi che non ti perdoni io?”.

Stiamo attenti a non banalizzare realtà profonde e misteriose come il crimine ed il perdono. Per giungere al pianto purificatore ed al cuore che si apre ed assolve, occorrono tempo e sofferenza. Ma, quando si offuscano i confini dell’agire morale, minimizzando il male e dubitando del bene, si finisce per svuotare di senso anche il perdono. E allora può capitare che la vittima si trasformi in colpevole.

Luciano Verdone

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